Una delle componenti più interessanti della moda è la possibilità di sperimentare culture e tradizioni di Paesi lontani rispetto alla mentalità occidentocentrica, che trova(va) esotiche e quindi altamente desiderabili lavorazioni, tessuti e soluzioni vestimentarie che arrivavano da Africa, Asia, India. Chi scrive ricorda con un certo pentimento di oggi i “viaggi di ricerca” che negli anni Ottanta i grandi marchi di moda intraprendevano alla volta di luoghi fantastici da cui tornavano carichi di indumenti, tessuti, bijoux tipici di un luogo e li rifaceva pari pari dalle industrie che appartenevano ai territori dei suddetti marchi. Successivamente è arrivato il momento degli studi, condotti dalla studiosa americana Susan Scafidi, autrice del saggio Who Owns Culture? Appropriation and Authenticity In American Law che definisce l’appropriazione a partire dalla provenienza dell’elemento usato, se appartenga cioè alla cultura di una comunità storicamente oppressa. Poi ne analizza il valore, quanto sia importante a livello simbolico per quella comunità o se faccia parte di un’iconografia relativamente comune; inoltre è determinante quanto la copia - il risultato dell’appropriazione - ricalchi l’originale e diventi strumento di profitto.

Con i social, poi ha avuto inizio la caccia al ladro: l’account dell’Inquisizione estetica @diet_prada, che gode nello svergognare stilisti e marchi, talvolta anche con eccessiva solerzia, di furto nei confronti di civiltà diverse da quella del marchio d’origine, facendo passare i guai, alcuni anni fa, addirittura a Valentino (colpevole di aver fatto le treccine africane a modelle pallide per una collezione-tributo al Continente nero) o a Gucci (che aveva sottratto a Dapper Dan, sarto della comunità underground black, alcuni modelli emblematici). Tutto questo preambolo perché la prima riflessione della giornata inizia con l’energetica collezione dei due indistinguibili gemelli Dean e Dan Caten, firme di DSquared2. Che trae ispirazione dalle comunità anglo-indiane che popolano i quartieri soprattutto delle metropoli anglosassoni, con il risultato di regalare più un sorriso che un polemica, sulle note allegrissime di una canzone da film bollywoodiano. Le felpe con cappucci a cui sono applicate tiare ironiche, oppure decorati con cascate di gemme, sono abbinate a gonne eleganti o fuseaux, gli abiti in lamé e tulle metallizzato e rivestiti con cristalli o perline si ispirano a Holiday on Ice ma anche ai sari ricamati, in un eclettismo che sa più di inclusione che di espropriazione, e soprattutto rappresenta un rispecchiarsi di una gioventù globale che non s’identifica più nella categoria del folklore.

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Dsquared2 AI 21/22

Si spinge ancora più in là il giovane Andrea Adamo, che risolve con eleganza il tema della diversity e dei confini epidermici: alla sua prima collezione ufficiale, che chiama Gli Amanti («in italiano, così come il mio sito finisce in punto “it” e non “com”») sceglie come gamma cromatica il color nudo in ogni sua declinazione, che nei fatti significa dal cipria al cacao, «come constatazione che la pelle svestita non abbia lo stesso tono per tutte) e in un solo materiale, la maglia tessuta e compatta. E lampi di pelle occhieggiano dagli oblò di pullover e top che letteralmente, si possono insinuare l’uno nell’altro, in un amplesso tessile per una silhouette che lusinga il corpo e ricorda (è un complimento) il metodo di lavoro di un grande come Azzedine Alaïa. Sotto il maxipull con le maniche a sbuffo fa capolino la tuta intera senza cuciture, le spalline si allacciano attraversano i tagli del top e lo abbracciano, in nome di un erotismo più cerebrale che evidente ed è un richiamo evidente alla sessualità in tempi post pandemici (Andrea Adamo ha fondato la sua griffe proprio durante il primo lockdown). «La mia moda non vede colori, non vede differenze, anzi la diversità è un punto di forza. L’unicità è un motivo d’orgoglio e non esiste un fisico perfetto per indossare i miei capi».

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Una concezione di una moda condivisa da Alessandro Vigilante, che pur nell’ aderenza di pullover second-skin e leggings in pelle, esprime un erotismo desessualizzato: certo, non facilmente interpretabile da ogni donna perché pone il corpo al centro dell’attenzione, ma interessante come nuovo codice che esprime una tensione all’anatomia da mostrare senza timidezze.

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A proposito di appropriazioni indebite, chi ha inventato per primo la tuta adesivata al corpo con pantacalze e cagoule integrata, stile muta da sub, che ha invaso praticamente tutte le collezioni? La si ritrova perfino nel défilé di Emilio Pucci, marchio dalla vita tormentata, con un potenziale tanto enorme quanto non espresso a dovere: nel video dove si parla di “puccificazione” delle stagioni. Al di là della indubbia gradevolezza, certi capi con stampe desaturate (ma perché!?) con i motivi Cervinia, Cortina d’Ampezzo, Specchi, Clessidra e Nappine chiedono di essere classificati come contemporanei perché utilizzati in bomber trapuntati, blouson, pantaloncini, polo e body. Poi arrivano gli abiti da sera in impalpabile chiffon e la situazione si complica, laddove con un marchio così importante, aggiornarlo significa coglierne lo spirito, più che plasmarlo su forme che “fanno 2021”. C’è bisogno di un ulteriore ragionamento su come l’heritage possa essere tradotto in un lessico moderno: ma di certo non è imprimendo un décor su una giacca sportiva che lo si rende appetibile ai giovanissimi (il target è evidente, il modo per arrivarci ancora no: in più, sono proprio quelli della Generazione Z a bramare il vintage). Spiace davvero dirlo, ma un’accorta politica di creatività unita al marketing, in questo caso non potrebbe che migliorare quello che c’è. Ed è molto, sia chiaro.

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Emilio Pucci AI 21/22

Infine, parlando appropriazione culturale, forse è il caso di riappropriarci della nostra cultura: con un curriculum molto denso alle spalle di lavoro e di interessi - soprattutto per la fotografia in Polaroid - Christian Boaro, che come Adamo ha fondato il brand CHB durante il lockdown, parla di “timeless beauty”, di bellezza senza tempo. Una collezione tutta in nero, sartorialmente europea ma non banalmente classica, dove rivista i capisaldi dell’abbigliamento attraverso una ricognizione di quelli che più fanno abitare meglio il corpo: la tunica, la mantella, l’abito trapezio, la canotta, la sottoveste. E convoca modelle e amiche di tutte le età – ma c’è anche un ragazzo – a identificarsi con questi prototipi di perfezione rivisitati nelle proporzioni e nei volumi. Il risultato è quello di una collezione che rassicura ma non annoia, tranquillizza ma non stufa: per uno stile amico, destinato a durare nel tempo.

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