Rituali misteriosi, liturgie impenetrabili, cerimoniali mistici. In questo terzo giorno di sfilate milanesi emerge un’esigenza di attraversare tempi oscuri attraverso l’esplorazione del lato inquieto del confinamento: la casa come trappola piena di sorprese non sempre piacevoli, l’escapismo in un'epoca in cui i confini tra uomo e natura sono tornati a essere incerti. Ma anziché risolversi in una partecipazione mistica, questa incertezza crea un dramma: quello del timore umano di essere annullato da forze naturali incontrollabili, come scriveva Ernesto De Martino nel mitico saggio Il mondo magico, del 1948. Vi suona familiare, se trasportato al mondo oggi? Del resto, durante la pandemia, esaurita la fiducia nella scienza anche a causa delle continue zuffe tra virologi-star, è cresciuta esponenzialmente la ricerca dell’occulto, la consultazione di astrologi a cui farsi fare l’oroscopo del presente proprio e del mondo. È un po’ bizzarro che la giornata inizi con due sintomatici mini-film: il primo è The Dreamer’s Room di Futuro Remoto (protagonisti, i gioielli cosmici di Gianni de Benedittis) con la musa di Ferzan Ozpetek Serra Yilmaz e la regia di Stefania Rocca: un dormiveglia di sogni che si trasformano in incubi e viceversa, contenuti in una casa pugliese che sembra disegnata da Escher e che si condensano in amuleti, talismani, allegorie preziose. Il secondo è Storia di tempi intensi, cortometraggio di Antonio Marras girato nel complesso nuragico di Barumini, con un cast tutto sardo, da un’idea di Patrizia, moglie di Antonio. Una Sardegna primigenia e irrepetibile, come l’Isola di Pasqua, come il Machu Picchu, Stone Age e Angkor Wat, dove un corteo di uomini e donne dai vestiti artigianali e mai così Marras-style, ispirati a quelli dei pastori e realizzati (quelli maschili) dall’antica sartoria locale Castangia, fondata nel 1850, si incammina per una processione. «Ci fu un tempo che si decise di ricorrere a forze ultraterrene. C’era bisogno di intercedere in alto, molto in alto, con mezzi suadenti, incisivi e determinanti. Ne andava della sopravvivenza della specie: una malattia incurabile e sconosciuta minacciava l’estinzione della razza umana». Inizia così la nota stampa e la capacità connaturata ad Antonio di connettersi con le emozioni si sprigiona con una forza che non vedevamo da anni: velluti opulenti e tessuti jacquard giocano con intarsi floreali e ricami artigianali. Potente, primordiale, conturbante. Per fortuna il designer termina il film passando dal solenne soundtrack del musicista Gavino Murgia alle note del demenziale Gambale Twist, in dialetto locale, cantato da Benito Urgu, che trascolora la disperazione in un sorriso. C’è una luce in fondo al tunnel, o c’è un tunnel accanto al comodino della camera da letto?

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Antonio Marras AI 21/22

Francesco Risso, direttore creativo di Marni e tra i più accaniti sostenitori di sperimentazioni visive e comunicative, stavolta divide la collezione in tre film volutamente casalinghi, all’ora del breakfast, del lunch e del dinner da (quella che vuole far credere sia) casa sua, ripiena di strampalate creature. Anche qui primeggia la dimensione della collettività, ma giocata più su un piano alla Factory di Andy Warhol, tant’è vero che a dargli una mano c’è Babak Radboy, artista e designer amatissimo dalla comunità underground americana (è il compagno di vita e di lavoro di Telfar, lo stilista più anti-tutto della moda Usa): il rito del mangiare insieme è stravolto da ragazze in cappe di tessuto tecnico orlate di pelliccia, poeti urlatori con abiti lunghi con strascico ma ricavati da vecchie magliette cucite insieme, in una festa orgiastica dove le scarpe da ginnastica a punta sono fatte bollire nella zuppa. Un’estetica che somiglia molto a quella dell’artista americano Paul McCarthy che nei suoi video accumula corpi sporchi, enfatizzati nella loro dimensione più fisiologica ai quali aggiunge protesi, maschere, liquidi e cibi simili a fluidi organici. Questa “artisticità” rischia di prevalere sul messaggio di una moda che, sia pur metaforica, avrà pure bisogno di essere venduta. Qui, invece, è una sorta di costumistica per una performance dai tratti pretestuosi: come se i vestiti avessero per forza bisogno di una cornice intellettuale o intellettualistica per giustificare la loro presenza, soffocando la creatività di Risso, che pure è molto bravo.

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Marni


Del resto, la dimensione della performance, e del cibo consumato insieme, della danza c’è anche nella presentazione di Luca Lin e Galib Gassanoff, le due anime del giovane marchio Act N°1. Una ragazza nuda, impanata nelle perle, perennemente addormentata viene circondata da ospiti di una casa in cui riconosciamo la Terra e noi, disgraziati suoi abitanti, mentre una ballerina danza sulle punte man mano che la casa prende fuoco. Ok, metafora compresa. Ma gli abiti, per due stilisti così capaci e così amati dalla stampa, non possono già storicizzarsi in proposte che vengono riproposte: le cascate di volant che s’insinuano nelle giacche, le enormi crinoline di tulle plissé, le maniche drappeggiate. Forse sarebbe il caso di inventare nuovi desideri in forma di abito, anche se sicuramente va loro riconosciuto una coerenza stilistica decisamente ferrea.

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Act 21 AI 21/22

A proposito di coerenza, l’ottimista (finalmente!) sfilata in streaming di Etro, disegnata da Veronica Etro, continua nella ri-affermazione di una femminilità bohemian-chic. Ad accompagnare le modelle, un concerto live in diretta da Los Angeles della cantante Arlissa: si susseguono i temi tipici della maison, dal paisley alle forme lineari e confortevoli, dai completi di taglio maschile in tessuti d’arredamento, cui danno un nuovo carburante bomber, parka e piumini molto interessanti (anche se forse non ci si sarebbe aspettati l’annuncio di una felpa oversize come capo-simbolo della stagione, ordinabile con le proprie iniziali). Qui la magia è nel ritrovare una nuova normalità, ma anche nel guardarsi indietro, nella propria storia, per darsi coraggio e resistere, resistere, resistere.

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Daniele Oberrauch//LAUNCHMETRICS SPOTLIGHT
Etro AI 21/22

Jeremy Scott nella sfilata per Moschino resuscita un film come Donne di George Cukor, del 1939, con un cast d’eccezione: Dita Von Teese, Maye Musk (la mamma di Elon), Precious Lee, Winnie Harlow, Hailey Bieber e Miranda Kerr. Troppo citazionista e troppo poco ironico per essere contemporaneo, tanto da riproporre tal quale, indossato proprio dalla regina del burlesque, il mitico abito di Thierry Mugler con apertura a cuore sulle natiche a mimare una scollatura con tanto di collana tra i glutei. Ma era il 1995. E quella di Moschino può essere scherzosa, ma non è mai stata una moda maleducata. E con pochissima magia. Se non quella del technicolor.

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Moschino AI 21/22