La Francia, paese che più di ogni altro ha colonizzato l’immaginario del colonizzatore per eccellenza, gli Stati Uniti (dal french kiss alle french fries, dalla french manicure al french toast, per non parlare della serie Emily in Paris, giustamente maltrattata dai critici ma ingiustamente in lizza per due nomination ai Golden Globes), a giudicare dalle sfilate digitali che chiudono durante una settimana tirata per le lunghe come un chewing-gum, vista da questa parte dello schermo, sembra smarrita. Disorientata. Scombussolata. Nella moda, ma non solo. La pandemia, la violenza dei gilet jaunes, il pericolo incombente del terrorismo l’hanno incupita, aggrottata, inseverita. E, come e forse più di Milano, gli show filmati, i défilmé, come li ribattezza Isabel Marant - quasi tutti li hanno preferiti ai fashion movies e non sappiamo se sia la scelta migliore - hanno mostrato l’urgenza di una individuazione fisica per rimandare alla grandeur estetica bordo Senna la sua peculiare aura magica. Tant’è vero che a chiusura della Parigi Fashion Week, come sempre a cura di Louis Vuitton, la location è un concentrato di pariginitudine: il Louvre. Anche se poi l’intera collezione è ispirata a un grande designer e decoratore d’interni italiano, Piero Fornasetti: uomo di grandissima cultura, gusto e intelligenza, autore di un linguaggio visivo che ha fatto del pastiche spazio-temporale la chiave interpretativa del suo lavoro, tra illustrazioni di giornali dell’Ottocento e riproduzioni grafiche di busti e medaglie romane, questi ultimi tra i motivi più amati da Nicholas Ghesquière, direttore creativo della maison. Che con questa sfilata si accosta alla Storia occidentale con un doppio salto carpiato: scegliendo quel luogo e la collaborazione con quell’artista che più di ogni altro ha immesso nella quotidianità la relazione col passato: «Esplorare gli archivi Fornasetti mi ha fatto provare l'emozione di uno scavo archeologico, dalla ricerca fino al ritrovamento di disegni, riportandoli a nuova vita per Louis Vuitton, per il presente e per il futuro» afferma Ghesquière. Stivali-calzari, giacche-tuniche, borse-sesterzi: voltarsi indietro e fare i conti con quello che abbiamo rappresentato restituisce l’idea di un mondo che cerca di nuovo, dopo la pandemia, dei punti fermi.

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Courtesy of Press Office
Louis Vuitton AI 21/22

Detto questo: la tanto decantata varietà e ricchezza di proposte che era il plus delle sfilate francesi rispetto a quelle italiane, stavolta fa pensare più a una Babele di segni, che non a un’abbondanza creativa. Di fronte a un’operazione squisitamente intellettuale, ma non per questo meno godibile, come quella di JW Anderson per Loewe che affida a un quotidiano cartaceo e a un podcast con Danielle Steel, scrittrice di romanzi rosa più letta nel mondo, il messaggio di una collezione che è elegantemente folle o follemente elegante, c’è il “nuovo” Givenchy di Matthew Williams, che prosegue nella sua purificazione dello streetstyle sublimato nella sartoria, ma dove sembra che gli abiti siano accessori degli accessori, malgrado la potente messa in scena apocalittica. Ancora: contrapposto al richiamo al volo verso il mondo - a dire la verità, più militare che vacanziero, e infatti lo show si svolge tutto su un aereo dell’Air France – di Olivier Rousteing per Balmain, c’è la concretezza sentimentale della rivelazione dell’anno, il coreano Rok Hwang.

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Givenchy AI 21/22

Do You Know Where You're Going To? / Do you like the things that life is showin' you? / Where are you going to? è, sintomaticamente, la canzone scelta da Virginie Viard, direttrice creativa di Chanel qui alla sua prova migliore, finalmente libera dall’ingombrante quanto piacevole figura di Kaiser Karl (tra l’altro la canzone, cantata da Diana Ross nel film Mahogany, del 1975 di cui è anche protagonista, parla di una modella e stilista di Chicago, chiamata a Roma dove realizza sì i suoi sogni professionali, ma non quelli etici: schierarsi a difendere i diritti degli afroamericani, ragion per cui rinuncia a sé e torna a casa. Insomma, una trama intonata anche a oggi). Viard presenta la collezione nel locale Chez Castel, complice il fatto che il Grand Palais, dove si svolgevano abitualmente le sfilate della maison, sia in restauro. Sappiamo dove andare? Ci piacciono le cose che la vita ci mostra? Ehm, no. La Viard preferisce guardarsi alle spalle e tributare un omaggio al club ora chiuso causa Covid. Fu l’oasi mondana della città negli anni 70 e 80: ci andavano Françoise Sagan e Françoise Hardy, una giovanissima Amanda Lear e un’aitante canaglia di nome Mick Jagger. Un palcoscenico distante dalla magniloquenza degli allestimenti voluti da Lagerfeld e proprio per questo, un nuovo, inesplorato territorio dove presentare una versione ringiovanita e rinfrescata dei tailleur della casa, dei lunghi cappotti indossati su fragili abiti in chiffon, con l’aggiunta di qualche nota di ottimo/pessimo gusto effervescente (le tipiche giacchine ma in finta pelliccia, così come i mini moonboot). La designer afferma che la collezione è infusa di ski spirit, un tema che percorre anche la collezione di Miuccia Prada per Miu Miu, filmata a Cortina D’Ampezzo: una processione di modelle che indossano la lingerie sotto abbigliamento da sci anni 70, in un mix di giochi vintage tra il fuori e il dentro, tra l’escapismo e l’obbligo del confinamento, tra la biancheria sexy e il pigiama: avrà grandissimo successo, malgrado una certa nota malinconica ed epica.

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Courtesy Chanel
Chanel AI 21/22

È interessante notare come siano soprattutto le donne designer a ragionare sul concetto di confine: tra sogno e realtà (Maria Grazia Chiuri per Dior, che ha immerso in una favola nera ambientata a Versailles la teoria di indossatrici assediate da specchi cancellati e irti di spine – un monito alla vanità irragionevole? No, opere d’arte di Silvia Giambrone – con indosso abiti di assoluta portabilità); tra femminilità giocosa e androginia affascinante (Gabriela Hearst, al suo convincente esordio come direttrice creativa di Chloé, dove ha sfruttato la sua eredità uruguayana per mantelli-coperta desiderabilissimi ambosessi); tra memoria e futuro (Isabel Marant e l’intelligente pensiero di interpretare la spinta propulsiva verso ciò che sarà, usando ciò che è sempre stato, come la lana, uno dei materiali più primitivi). Le donne hanno sempre vissuto sulla linea e sul confine, è sempre stato chiaro loro un duplice modo di essere, una doppia personalità, una divisione del loro ruolo nella società. Scrive Franco Rella, in Miti e figure del moderno: «E così esse acquistano una resistenza, individuale e collettiva, come fossero divenute le maglie d’acciaio che finalmente possono contenere il reale nelle sue metamorfosi e dominare il “disordine” in cui le cose divengono e periscono».

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Isabel Marant Ai 21/22