Nonostante i proclami, e l'utilizzo ad nauseam di termini come sostenibilità, eco-friendly e green, la moda è ancora ben lontana dal combattere in maniera efficace le impellenti questioni ambientali. E l'Unione Europea ha deciso di agire. Se a gennaio una commissione incaricata dalla stessa Unione aveva effettuato una perlustrazione virtuale sui siti di brand europei di abbigliamento, cosmetica e cura della casa, scoprendo che, nel 42% dei casi, le affermazioni relative alle politiche di sostenibilità di queste aziende erano difficili da verificare, opache o, nel peggiore dei casi, false (ne avevamo parlato qui), il nuovo report stilato dal Business of Fashion ci ha messo il carico da novanta. Una pietra tombale costruita a suon di numeri e dati, il Sustainaibility Index ha analizzato 15 aziende a livello globale – una lista comprensiva dei conglomerati del lusso LVMH e Kering, ma anche dei giganti del fast fashion Inditex e H&M – verificando i loro risultati in sei categorie: trasparenza, emissioni, trattamento di acqua e agenti chimici, selezione dei materiali, diritti dei lavoratori, trattamento dei rifiuti tessili. E in effetti troppo spesso il termine sostenibilità viene inteso solo come approccio intelligente a modelli tessili circolari, laddove la sostenibilità è un approccio a 360° su tutte le fasi produttive (da come viene lavato il tessuto, quali coloranti vengono utilizzati, come e se viene riciclata l'acqua reflua utilizzata per i lavaggi, quanta energia viene spesa per la produzione di un capo, e non da ultimo, quali sono le condizioni lavorative di chi opera all'interno degli impianti). Il report ammette sin dall'inizio un obiettivo ambizioso: quello di creare una metodologia trasparente e chiara che possa identificare in maniera precisa, numerica, i progressi compiuti. Un compito monumentale, considerato il diverso grado di diffusione dei dati delle aziende prese in esame, scelte in quanto risultano essere, in 3 diversi settori (lusso, sportswear e highstreet) le 5 che hanno registrato i maggiori profitti nel 2019. Seguendo 338 indici di misurazione sulle sei categorie sopra citate, le 15 aziende hanno registrato un punteggio medio di 36 su 100, ben distante persino dalla sufficienza. Di fronte a delle promesse raramente mantenute, e ad un periodo di tempo limitato (i 10 prossimi anni) per intervenire e invertire la rotta, è così fisiologico l'intervento governativo. La SEC americana (Securities and Exchange Commission, ente federale che vigila sulla borsa valori ) sta al momento studiando delle proposte per obbligare le aziende a condividere tutti i dati relativi alle loro policy ambientali e sociali. Nell'Unione Europea, invece, il Parlamento ha formalmente emanato delle raccomandazioni (termine che indica un invito ufficiali, però non vincolante) alla Commissione incaricata di verificare i dati di bilancio e la sostenibilità ambientale e sociale (in linguaggio tecnico, la ESG, Environmental, Social and corporate Governance) delle aziende.

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Il 10 marzo il Parlamento ha avviato una procedura che servirebbe ad approvare leggi capaci di garantire "che le aziende siano ritenute responsabili quando ledono i diritti umani e l'ambiente e che garantiscano che le vittime possano accedere a vie legali". L'obiettivo è quindi obbligare le aziende alla due diligence (una pratica di approfondimento dei dati che ad oggi è usata solo nel caso di acquisizioni, cessioni di società e aziende, collocamento di azioni, e non a priori), e la definizione di diritti per i singoli e gli interlocutori che vengono danneggiati dal mancato rispetto delle regole. Una proposta che sarà avanzata in maniera ufficiale nel secondo quadrimestre dell'anno e che, secondo il Parlamento "consente di definire degli standard per una condotta responsabile degli affari non solo per le aziende europee, ma anche quelle che hanno il quartier generale altrove, e che però operano all'interno di uno dei 27 paesi dell'Unione. Le aziende che lavorano all'interno dell'Unione Europea dovranno dimostrare che rispettano i diritti umani e quelli ambientali" si specifica nella nota emessa dal Parlamento. Una proposta spiegata da The fashion law, e che avrebbe un'efficacia molto maggiore delle varie legislazioni nazionali, alle quali si andrebbe ad aggiungere. Seppure fosse accettata, e implementata, nn entrerebbe in vigore prima del 2023. Certo, però, è un indizio importante di come gli enti governativi abbiano deciso, di fronte all'opacità generalizzata delle aziende, di intervenire a gamba tesa: ci sono solo 10 anni, ed evidentemente si è esaurito il tempo dei proclami.