E dire che Yves Saint Laurent, che lo aveva eletto a suo successore, per la prima sfilata di prêt-à-porter Rive Gauche – l’8 marzo del ’99 - gli prestò il suo gioiello portafortuna. Non è servito molto, ad Alber Elbaz. La notizia della morte causa Covid, a sessant’anni da compiere il 12 giugno, fa arrabbiare al punto di rasentare la disperazione. La sua carriera dovrebbe servire in futuro come paradigma della crudeltà e della miopia dei grandi gruppi finanziari che, nel corso della sua carriera lo hanno maltrattato, trascurato, reso vittima di un sistema capriccioso che, in certi casi, ha oltrepassato la sua indiscussa genialità, la capacità di creare abiti per tutte le donne di ogni età e di ogni latitudine molto prima che la parola inclusivity diventasse un tema urgente sulle passerelle delle maison del lusso, ma anche quelle no. Chi scrive ricorda come la sua collaborazione con H&M nel 2010 fu una di quelle che riscosse maggior successo commerciale, proprio perché era nelle sue corde uno stile “democratico” non tanto per i costi, quanto per le forme empatiche che abbracciavano ogni tipologia di donna, sia dal punto di vista anatomico, sia dal punto di vista psicologico. Una vita sfortunata? Un karma pesante? Qualche errore di ingenuità? O più semplicemente la storia di un grande perseguitato da un sistema che non premia i grandi talenti neanche quando sono redditizi? Nato a Casablanca ma trasferito con la famiglia a Tel Aviv all’età di dieci anni – si considerava israeliano a tutti gli effetti - sarebbe una tentazione dai toni letterari ricorrere al topos della figura dell’ebreo errante di maison in maison. Ma non è questo il punto, quando a costellare il suo cammino vi sono stati inciampi dettati solo dall’arroganza e dalla cecità altrui. Peccato: era amatissimo dalla stampa di settore, venerato da schiere di clienti che gli garantivano la fama di un fashion designer in grado di coniugare perfettamente l’aspetto commerciale a quello estetico («non sono un couturier, sono un tecnico. L'alta moda deve rimanere come la gastronomia francese. Forse è solo questione di ridurre un po’ la salsa», disse in un memorabile faccia-a-faccia con Karl Lagerfeld sulla rivista francese Numéro), eppure mai lasciato libero di esprimersi fino in fondo in pace. Spodestato da un Tom Ford che, quando fondò il Gucci Group (ora Kering Group) pensò di sostituirsi a lui, dopo una parentesi brevissima con Krizia, nel 2001 era arrivato a resuscitare una maison dimenticata dai più: quella di Jeanne Lanvin, acquisita dalla multimiliardaria taiwanese Shaw-Lan Wang. E quel suo stile superficialmente bollato come “femminile” o, per dirla alla parigina, coquette, ma in realtà frutto di ricerche e sudatissimi studi in atelier per realizzare «abiti che si prendano cura delle donne», divenne in pochi anni sinonimo di un linguaggio del vestire lieve e confortevole, sofisticatissimo eppure in grado di parlare a tutte. Si apriva un universo punteggiato da fiocchi di raso, linee svolazzanti, abiti da cocktail con le gale di satin, senso del colore che lui attribuiva all’eredità della mamma pittrice, eleganza mercuriale facile ma impeccabile, sempre in equilibrio con una certa ironia che lo contraddistingueva anche nella vita privata: era timidissimo e complessato dal non essere bello fino al punto di fare di se stesso una maschera all’insegna della rotondità: occhiali a cerchio sulla faccia paffuta, conchiusa da un immancabile papillon, sempre a Lagerfeld confida: «Non so cosa sia peggio: io senza gli occhiali, o io in costume da bagno» e ad altri giornali affiderà il sogno di «essere bello, snello. Deve far bene sentirsi Tom Cruise». Nel 2005 viene eletto Best International Designer dal CFDA, il Council of Fashion Designers of America; nel 2007, è insignito della Legion d'Onore a Parigi; nel 2012 Meryl Streep riceve l’Oscar per The Iron Lady con un suo abito dorato e drappeggiato, ma altre celebrity gli chiederanno creazioni ad hoc: Demi Moore, Nicole Kidman, Catherine Deneuve, Kate Moss, Uma Thurman, Julianne Moore e Gwyneth Paltrow; nel 2015 disegna i francobolli delle Poste Francesi e addirittura riveste in Lanvin la Minnie di Disneyland Paris. Insomma, cosa fare di più per essere uno dei protagonisti stabili sull’Olimpo dei creativi?

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Non è bastato. Ed è con rabbia e tristezza che scriviamo queste righe. Mandato via in malo modo e contro il parere di tutti dalla proprietà, è costretto a lasciare Lanvin che pure marciava benissimo mentre ora deve ritrovare una sua identità. A gennaio scorso ha trovato in Richemont, altro colosso del lusso internazionale, un’altra chance: è nata AZ Factory, linea meno sfarzosa di Lanvin ma che contiene esattamente tutti i codici (anche etici) del suo metodo. La sua linea di capi di maglieria MyBody, ad esempio, comprende capi realizzati con un AnatoKnit, un materiale stretch che esalta le curve naturali ed è pensato per lusingare tutti i tipi di corpo. «Lavoro principalmente per intuizione. Ogni volta che penso troppo e cerco di razionalizzare ogni problema, non funziona. Penso che l'intuizione sia l'essenza di questo mestiere». Linee portabili, grande varietà di taglie, dalla XXS alla 4XL) e soprattutto, una serie di accessori appetibilissimi: le sneakers a punta, orecchini a forma di cuore, collane vistosissime in ottone e perle. AZ Factory è stata prevista soprattutto per una distribuzione via e-commerce: un ulteriore segnale dell’attenzione a un mondo che cambia e con lui le esigenze del “desiderio”, parola che più di ogni altra segna le sue interviste. Nessuno come Elbaz ha lavorato sul desiderio femminile che trova la ragion d’essere nella gioia di vestirsi come in quella di trasmettere emozioni di positività, ed è uno dei rarissimi casi in cui un designer, pur rimanendo fedele al suo alfabeto espressivo, amasse davvero le sue fan: «Non sono qui per creare un look, ma per seguire le necessità delle donne. È questa la mia idea di design. Oggi le donne sono più indipendenti, osano di più. Non dipendono dai loro mariti che danno loro un assegno per comprare un vestito. Non dipendono nemmeno da uno stilista (…) L' abbigliamento deve accompagnarle. Vogliono muoversi con gli abiti, conviverci. Il movimento è essenziale per me, è la vita», ha detto in un'intervista alla rivista L'Express nel 2008. Lui di movimento e viaggi, all’interno del successo e fuori, ne ha fatti anche troppi. Rimarrà in noi la nostalgia di sapere cos’avrebbe fatto se, prima di Richemont, gli fosse stata offerta la possibilità di avere una linea tutta sua. Ora che i giornali di settore scrivono che “il mondo della moda è in lutto”. A noi piacerebbe leggere, piuttosto, che “il mondo della moda è in lotta” contro certe logiche di mercato.