Il giorno in cui il mondo si è fermato per colpa del coronavirus, l’industria del fashion ha bruciato 40 miliardi di dollari. A volte le statistiche spiegano le cose senza raccontare la storia che conta: cosa rappresentano, nella vita reale, 40 miliardi di dollari?Corrispondono a milioni di persone che in un istante perdono tutto, iniziando dalla loro dignità; 40 miliardi sono il corrispettivo degli ordini cancellati in poche ore dai maggiori brand di moda. Una catastrofe. A oltre un anno da quel momento c’è che riesce a sostenere che la pandemia – al netto delle tragedie – sia una delle più grandi opportunità mai capitate proprio all’industria del fashion. Il virus e le sue conseguenze devastanti, come chance per cambiare regole ormai insostenibili. Ayesha Barenblat, fondatrice dell’associazione Remake che si occupa di difendere i diritti dei lavoratori nella filiera della moda, sembra non avere dubbi: “La solidarietà e lo sforzo fatto da moltissimi per aiutare le comunità di lavoratori colpite da questo blocco nell’ultimo anno, non si sarebbe mai realizzata senza un lockdown e senza dunque la possibilità di affrontare temi vitali. Sostenibilità, trasparenza, diritti umani. Finalmente se ne parla, il numero di aziende che hanno deciso di intraprendere buone pratiche e di vigilare davvero, sta crescendo in modo esponenziale”. Ovviamente una cosa sono i buoni propositi e gli annunci, ben altro le azioni concrete. Trasparenza e sostenibilità sono termini che riempiono la bocca dei più importanti maghi della comunicazione, ma serve molta attenzione per distinguere la verità da quello oggi viene definito greenwashing, il lavaggio del cervello in chiave ambientalista, una forma di cosmesi del linguaggio che copre pratiche scorrette. Ci sono aziende i cui siti ufficiali promuovono le migliori pratiche di rispetto ambientale e diritti del lavoro, ma se lanci 400 collezioni all’anno e hai un fatturato da svariati miliardi, è fisicamente impossibile rientrate nei canoni di correttezza dichiarati.

bangladeshi workers work at a garment factory in savar outskirts of dhaka on february 6, 2020 the garment sector has provided employment opportunities to women from the rural areas that previously did not have any opportunity to be part of the formal workforce this has given women the chance to be financially independent and have a voice in the family because now they contribute financially however, women workers face problems most women come from low income families low wage of women workers and their compliance have enabled the industry to compete with the world market the textile and clothing industries provide the single source of growth in bangladeshs rapidly developing economy exports of textiles and garments are the principal source of foreign exchange earnings bangladesh is the worlds second largest apparel exporter of western fast fashion brands sixty percent of the export contracts of western brands are with european buyers and about forty percent with american buyers
 photo by mehedi hasannurphoto via getty imagespinterest
NurPhoto//Getty Images

Fairtrade è un’organizzazione internazionale che vigila su queste pratiche mentre lavora per migliorare le condizioni dei lavoratori nei Paesi in via di sviluppo. Fairtrade Italia ha da poco pubblicato una lista di aziende del fashion che utilizzano l’e-commerce, adottando pratiche di filiera ineccepibili e trasparenti. Ma se per le piccole aziende il tema “trasparenza” è verificabile facilmente, quando si ha a che fare con i giganti della moda, il quadro si complica. Subindu Garkhel è la responsabile del segmento relativo ai lavoratori del cotone per Faitrade e il suo approccio vuole essere ottimista, seppure con riserva.“È vero, nell’ultimo anno la sensibilità su problemi è cresciuta, le grandi aziende a volte fanno fatica ad avere il polso di quel che succede lungo tutta la filiera. Molte compagnie dislocate nei Paesi in via di sviluppo, fanno contratti di manifattura con i brand della moda ma poi subappaltano il lavoro per lucrare sui profitti. A meno di una vigilanza assoluta, anche chi ha buone intenzioni può finire intrappolato in questo sistema diabolico”. Nell’aprile di otto anni fa, la filiera del fashion ha vissuto una sorta di 11 settembre, il crollo del complesso commerciale di Rana Plaza, a Dacca, in Bangladesh, otturato di aziende per manifattura di basso costo. Morirono 1.138 persone, migliaia rimasero gravemente ferite. Quella tragedia mise a nudo di fronte al mondo, lo sfruttamento dei lavoratori nel terzo mondo. Da allora un nuovo e virtuoso movimento si è messo in azione.“Quell’episodio ha spiegato a tutti quanto trasparenza e tracciabilità siano fattori irrinunciabili. Ma sono ancora troppe le aziende che trascurano i contadini che coltivano il cotone che serve per realizzare quello che ci mettiamo indosso, una forza lavoro da oltre un milione di persone. Dobbiamo concentrarci sugli esseri umani, sul contadino e sui membri della sua famiglia che lo hanno aiutato a impacchettare il cotone e poi su tutti gli individui che fanno arrivare il prodotto fino alla fabbrica dove altri si occuperanno di creare l’indumento. Prima che un capo possa essere indossato, ci sono decine di mani che lo hanno lavorato. Ma se dimentichiamo tutto questo, ogni sforzo sarà inutile”. La strage di Rana Plaza costrinse anche brand prestigiosi a una profonda autocritica. Se si esclude l’aspetto del lavoro sotto costo, la fashion industry è quella che produce più danno all’ambiente sul pianeta dopo quella degli idrocarburi. Una spirale folle. “La maggior parte del nostro cotone arriva da contadini o piccole aziende, spesso i grandi marchi non sanno neppure da dove proviene come alcuni ignoravano genuinamente – non tutti – che a Rana Plaza si lavorassero proprio i loro capi. Spingere le aziende a rendere pubbliche le informazioni sulle loro pratiche di business rende più facile il riconoscimento dei problemi. Prendersi le proprie responsabilità cambierà le modalità in cui si realizzano i profitti. La trasparenza è funzionale a questo cambiamento. D’altronde non è possibile che una maglietta sia più economica rispetto a dieci anni fa, mentre tutti i costi di produzione sono saliti. Come può una t-shirt costare meno, quando tutto costa di più, dal cibo al carburante? Si spiega così, le fabbriche nei paesi in via di sviluppo si accaparrano a tutti i costi i contratti di fornitura per i brand, puntando sull’abbassamento dei prezzi e su tempi più rapidi, una prassi che si traduce in costo orario per gli operai di meno di 50 centesimi di dollaro”.

bangladeshi worker works at a garment factory in gazipur outskirts of dhaka, bangladesh, on march 6, 2020 the garment sector has provided employment opportunities to women from the rural areas that previously did not have any opportunity to be part of the formal workforce this has given women the chance to be financially independent and have a voice in the family because now they contribute financially however, women workers face problems most women come from low income families the low wage of women workers and their compliance have enabled the industry to compete with the world market the textile and clothing industries provide a single source of growth in bangladeshs rapidly developing economy exports of textiles and garments are the principal source of foreign exchange earnings bangladesh is the worlds second largest apparel exporter of western fast fashion brands sixty percent of the export contracts of western brands are with european buyers and about forty percent with american buyers photo by mehedi hasannurphoto via getty imagespinterest
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Le cose cambiano e non solo a parole. L’Unione Europea sarà il primo governo a varare un protocollo che imporrà per legge la trasparenza e la sostenibilità alle aziende del fashion. La bozza parla di “elefante nella stanza” che tutti ignorano, ovvero le pratiche di acquisto dei maggiori brand. Le nuove regole impongono vigilanza ferrea su ogni fase della filiera. Un bel risultato in un momento storico delicato specie per Paesi produttori come l’India, flagellati dal virus.“Anche prima del Covid – spiega Subindu – i cambiamenti climatici e il crollo dei prezzi avevano reso vulnerabili molti coltivatori di cotone in India. Ora la situazione è peggiorata, ma nel 2020 siamo riusciti a raggiungere circa 1500 tra i principali coltivatori indiani con piani di ristoro adeguato. Certo la pandemia ha reso più difficile il nostro lavoro di monitoraggio sul territorio perché si viaggia meno, è possibile che qualche azienda ne ha approfittato, ma i segnali sono incoraggianti, così come lo è un certo cambio culturale in atto”. Naturalmente le leggi da sole, non bastano. Serve di raggiungere un obiettivo ben più ambizioso. La Garkhel lo spiega chiaramente: “La vera rivoluzione nasce dai consumatori. Da una semplice presa di coscienza, c’è un mondo molto complesso oltre ai vestiti che ci compriamo. Dobbiamo informarci, verificare dove i brand prendono il cotone e chi lavorerà le loro creazioni, fare scelte educate e non più basate sull’euforia di acquistare senza senso. E poi serve capire che l’industria della moda fa parte di un contesto ben più grande che si chiama pianeta terra, dove il rispetto dell’ambiente e degli esseri umani che lo popolano, sono impegni non più derogabili per migliorare la qualità della vita di tutti. Siamo uniti da un destino comunque, è questo il momento storico che ci chiede finalmente di riconoscerlo e di comportarci di conseguenza”.