Due ragazze bionde che sembrano far parte di una vecchia campagna pubblicitaria di Versus/Versace, una ragazza in procinto di fare una capriola e altre che guardano l’obiettivo ricordando Nadja Auermann, Kate Moss, Helena Christensen e Charlotte Rampling in alcune foto iconiche di Peter Lindberg, esposte in una delle ultime mostre pre-Covid (Heimat. A Sense of Belonging) all’Armani/Silos di Milano. Questa volta, però, siamo a Roma, al Museo MAXXI, e avvicinandoci a queste fotografie in bianco e nero appese su una grande parete, scopriamo che dietro la loro patina glamour ed elegante, si nascondono in realtà storie terribili, atrocità e bruttezze che ci fanno improvvisamente vedere il tutto in maniera diversa. L’installazione - composta da sei fotografie - è stata realizzata dall’artista croata Sanja Iveković, fotografa, scultrice e performer che lavora spesso con le immagini provenienti dai mass media. In questo caso, ha fatto di più. Tra il 1997 e il 2001, per il suo lavoro Gen XX ha preso immagini di modelle e di campagne pubblicitarie per raccontare altre storie, per sensibilizzare e non far dimenticare. Le immagini sono quelle, ma i testi e i nomi non si riferiscono alle ragazze fotografate, ma a eroine nazionali della ex Jugoslavia impegnate nelle lotte antifasciste della Seconda Guerra Mondiale.

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MIP (Musacchio Ianniello Pasqualini) courtesy Fondazione MAXXI

C’è Nera Safaric, ad esempio, arrestata a Crikvenica nel 1942 e portata in un campo di concentramento di Auschwitz perché accusata di attività antifasciste. Stessa accusa per Sestre Bakovic, torturata e giustiziata a Zagabria nel 1942, Dragica Koncar, Nada Dimic e Ankra Butorac, tutte uccise poco più che ventenni come Ljubica Gerovac - tra i simboli del femminismo - che per evitare la tortura, decise di togliersi la vita. Sono nomi che alla generazione cresciuta nella Jugoslavia socialista di Tito dicono molte cose, fanno tornare alla mente ricordi, dolori e rabbia ed è per questo che l’artista ha deciso di usare questo ‘escamotage’ per farli conoscere anche ai giovani croati e a quanti visiteranno il museo romano. Queste foto, infatti, fanno parte di Più grande di me: voi eroiche dalla ex Jugoslavia, la necessaria e suggestiva collettiva (la prima dopo il lockdown) inaugurata oggi nel luminoso e scenografico museo progettato da Zaha Hadid. In mostra – curata da Zdenka Badovinac con la collaborazione di Giulia Ferracci – troverete quasi cento opere di oltre sessanta artisti originari dei diversi paesi della ex Jugoslavia che nell’insieme formano un suggestivo mosaico emozionale che ripercorre la storia difficile di un territorio attraversato nei secoli da conflitti, da tensioni e instabilità, ma anche dall’utopia di un Paese un tempo socialista costruito inizialmente su ideali differenti. Questi ultimi, li ritroviamo nelle otto tematiche, tra cui Libertà, Uguaglianza, Fratellanza e Speranza – che rappresentano e raccontano gesta eroiche, rivoluzioni e valori positivi, ideali per cui in passato si era disposti a lottare e addirittura a perdere la vita, ma che per contrasto fanno affiorare la profonda crisi degli stessi nella società contemporanea – e Rischio, Individuo, Alterità e Metamorfosi - che invece descrivono il mondo di oggi e le questioni più urgenti della contemporaneità. Sono donne coraggiose, curiose, indipendenti, colte e anti conformiste quelle presenti in mostra. Accanto alle foto della Iveković ce n’è una in formato poster dove una donna con i capelli neri attraversa una città completamente nuda standosene sul suo cavallo bianco. A Realizzare la performance è stata un’altra artista, Vlasta Delimar, nuda e maestosa a cavallo per le vie di Zagabria nella gigantografia “Lady Godiva” in cui trasforma la potenziale umiliazione di quella donna - che secondo l’omonima leggenda medievale riuscì a convincere il marito ad abbassare le tasse a Conventry - in un atto consapevole di presenza individuale e pubblica. Dietro un pannello, troverete anche “Rhytm 0” che Marina Abramović presentò nel 1974 allo Studio Morra di Napoli, una performance iconica e molto pericolosa, perché l’artista, per sei ore di seguito, assunse un ruolo passivo, mentre il pubblico diventò una forza attiva che compiva azioni con i 72 oggetti da lei messi a disposizione e utilizzati a piacimento direttamente sul suo corpo. “Di tutte le mie performance, è stata quella più pericolosa, perché più di una persona cercò di colpirmi con il martello o di ferirmi con i coltelli”, ci disse quando la incontrammo a Firenze, in occasione della retrospettiva a lei dedicata (The Cleaner) a Palazzo Strozzi. Qui Marina esplora il proprio corpo in maniera radicale, facendone una sorgente e un veicolo per l’espressione artistica, affrontando il tema dei limiti del corpo e delle azioni che si possono compiere sugli altri.

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MIP (Musacchio Ianniello Pasqualini) courtesy Fondazione MAXXI

Lo ha fatto su se stessa anche Maja Smrekar, trascorrendo 112 giorni di isolamento, dall’ottobre del 2015 al febbraio del 2016, trasformando la sua casa in una tana umanizzata stando a contatto con il suo cane che all’occasione ha anche allattato. Il risultato è stato una “Hybrid Family”, una riflessione sulla relazione di parentela che ci può essere tra un cane e un essere umano, un’azione intima e radicale, una famiglia alternativa e ibrida, non c’è che dire, e sicuramente una dichiarazione biopolitica. Božena Končić Badurina, artista visiva di basa a Zagabria, e Diga Mavrinac, curatrice e assistente nell’Istituto di ricerca antropologica a Zagabria, hanno affrontato insieme la questione del lavoro domestico pagato dopo una lunga ricerca etnografica dedicata alle badanti croate che lavorano in Italia con persone anziane e disabili. Spesso trascurato e sottovalutato da una prospettiva sociale, il lavoro domestico è una categoria eterogenea che racchiude attività quantificabili come pulire, stirare, cucinare, e aspetti non quantificabili come cura, attenzione, pazienza, calma e via dicendo. Questo progetto è dedicato a quei lavoratori domestici migranti che si occupano della casa e della famiglia dei loro datori di lavoro e insieme della propria casa e famiglia conducendo una vita sdoppiata. Comunicano grazie alle nuove tecnologie, questi sì, e dal 2011 sono tutelate dalla Convenzione C189, ma c’è ancora tanto da fare per loro. L’installazione mette in evidenza e problematizza l’invisibilità di certe lavoratrici nella vita di tutti i giorni e nel discorso pubblico, mettendo in risalto le loro vulnerabilità con l’idea di sviluppare alcune strategie per fornire una protezione legale istituzionale in maniera più chiara e definita. Tutte insieme, queste donne – come gli altri artisti presenti in mostra – sono portatrici del messaggio che quel tipo di società in cui sono nate e vissute per un periodo della loro vita, non esiste più, “perché ha lasciato il posto a un presente in cui a dominare sono il cinismo e il relativismo”, ci ha spiegato il presidente del Museo Maxxi, Giovanna Melandri, “una stagione di individui singoli che pensano di poter vivere senza gli altri”. “La ex Jugoslavia - ha aggiunto - fa parte della nostra memoria storica e collettiva, ci spinge a diventare ancora una volta eroi del nostro tempo, a fermare il potere ostile del capitale globale cercando di riprendere in mano la situazione”. Un vero e proprio messaggio d’amore, il suo (e il loro), colmo del desiderio di trascendere noi stessi per tornare a essere parte della società.

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MIP (Musacchio Ianniello Pasqualini) courtesy Fondazione MAXXI