Un libro divenuto film, più di 40 anni fa, e oggi trasformato in una serie tv, che però, come il libro originale, è la trascrizione, più o meno fedele, di una sordida vicenda di vita reale. Disponibile in Italia su Amazon Prime, Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino è il tentativo della showrunner Annette Hess, ma anche dei produttori internazionali e dei coproduttori Wilma Film (Repubblica Ceca) e dell'italiana Cattleya, di attualizzare un racconto che fece scandalo all'alba della sua uscita: a renderlo possibile, furono due giornalisti tedeschi, Kai Hermann e Horst Rieck, che per il settimanale Stern, nel 1978, raccolsero la testimonianza di Christiane Vera Felscherinow. Imputata in un processo per ricettazione e detenzione di droga – accuse dalle quali fu poi scagionata tenendo conto della sua giovanissima età – la vicenda giuridica però vide come principale accusato un maturo agente di commercio abituato a frequentare prostitute ben più giovani. Una vita iniziata alle droghe e alla prostituzione necessaria per procurarsele, quella di Christiane, fin dalla più tenera età, dai 13 ai 15 anni: la sua adolescenza, e quella dei coetanei che la circondavano, e che come lei caddero preda dell'eroina – in alcuni casi non riuscendo a sopravvivere – furono pubblicate a puntate sul settimanale, divenendo poi l'anno dopo un libro. In Italia il manoscritto arrivò nel 1981, stesso anno della celebre trasposizione cinematografica, ad opera del regista Uli Edel. A renderlo indimenticabile fu anche l'apparizione nel film del Duca Bianco, David Bowie, in un concerto immaginato nella Berlino Ovest del libro, ma registrato a New York. Esaurite le note meramente storiche sui famosi precedenti, il prodotto di Amazon Prime Video parte da quelle che sono le originali registrazioni di Hermann e Rieck, ricostruendo la vita di Christiane F. dal suo arrivo nel quartiere di Gropiusstadt, casermone popolare della capitale tedesca, e l'integrazione a scuola, resa più difficile da una situazione familiare dove il denaro è il grande assente, così come la maturità dei genitori. Il casting dei protagonisti rispecchia una posizione diversa rispetto all'originale scelta di Edel, che per il film optò solo per attori emergenti – esclusione fatta per l'attrice che interpretò Christiane, Natja Brunckhorst – della stessa età dei reali protagonisti delle vicende. Un'adesione alla realtà che richiese il permesso dei genitori dei giovani attori, e che non risparmiò comunque alla produzione delle critiche, una su tutte quelle di "traviare" menti giovani, incapaci di capire i pericoli che stavano portando sullo schermo, e magari più propensi a cedere, nella loro vita privata, al fascino delle droghe.

Nella versione televisiva odierna, gli attori – tra cui l'italiano Michelangelo Fortuzzi – hanno tra i 16 e i 18 anni, proprio per evitare lo stesso biasimo, e, nel corso di 8 episodi, raccontano una storia che, all'alba della sua uscita, nel 1981, ebbe il valore di un disturbante documento storico su una situazione geo-politica che stava scavando dei graffi profondi nell'animo della gioventù dell'epoca. Genitori immaturi come ragazzini, ragazzini che diventano grandi troppo presto, la potenza "brutalista" del film e del libro era nella realtà sordida di fronte alla quale metteva lo spettatore, costringendolo a guardare negli occhi il mal de vivre, ferita purulenta e incancrenita, nascosta appena sotto le giacche di jeans slabbrato e la parvenza di normalità. Qui però, in una Berlino assolata come non la immagina nessuno, il cemento della Guerra Fredda ingentilito dalle facciate di allegri pastelli, come se ci si trovasse in un qualche ridente paesino olandese e non in una città che portava ancora le ferite del secondo conflitto mondiale, il guardaroba sembra pescato da un armadio diverso da quello di Christiane, Babsi, Stella, e Axel. Laddove il film aveva vita relativamente facile – si trattava, in fondo, di vestire degli adolescenti pensando a delle vicende avvenute solo 4-5 anni prima, con un grado massimo di realismo garantito – il processo di mitizzazione di un decennio e di un luogo di cui si preferisce dimenticare i drammi, ammantandoli di un nostalgico glitter, si svela sin dalle prime puntate della serie tv.


I bomber bicolor sembrano approdare a Gropiusstadt direttamente dagli showroom parigini di Vetements, i blazer regimental sfoggiati da Christiane per le sue serate al Sound – la discoteca che diverrà luogo di incontro e perdizione – hanno le vibrazioni rock della celebre giacca dell'esercito ussaro di Jimi Hendrix. L'operazione di revisione storica e cinematografica si esprime però al grado più alto con il personaggio di Babsi, figlia della buona borghesia di Schöneberg, che subisce un processo di trasmutazione semiotica: la ragazza di famiglia benestante ma accomunata ai suoi coetanei meno abbienti dallo stesso disagio esistenziale, e dall'assenza dei genitori, si tramuta qui in una pensosa versione di un'altra tossicodipendente ben più glamour, che arrivava da altre coste dell'oceano e da un'altra decade, Edie Sedgwick. Babsi, frangia da educanda e volto innocente segnato dalla tristezza – nella realtà sarà la più giovane vittima della droga nel mondo occidentale, morendo a soli 14 anni di overdose – adotta così un caschetto biondo platino, e gli abitini con maxi colletto e linea ad A che spesso sfoggiava la ragazza della Factory di Andy Warhol. Il ripescaggio di icone più facilmente comprensibili, masticabili e digeribili da un pubblico contemporaneo, prosegue così con Michi – personaggio ispirato all'originale Atze del libro – tramutato in una versione contemporanea del Mark Renton di Trainspotting, di cui adotta in blocco le canotte, e Benno, qui accolito fedele del guardaroba del Tyler Durden di Fight Club. Altra giacca, altra decade, altra mitologia: ormai a capo di un gruppo di giovani senza futuro – e che qui invece sembrano una combriccola à la page, della quale lo spettatore è portato a desiderare di esser parte – per le loro sortite notturne in discoteca, Christiane e Stella sfoggiano maxi giacche in pelle e montoni corredati di scenografiche frange, rubate probabilmente dall'armadio di Kate Hudson in Quasi famosi. Il guardaroba diviene così strumento stilistico per scatenare la solita, perbenista, nostalgie de la boue, una sorta di romanticizzazione di chi, per estrazione sociale o provenienza geografica, è costretto a vivere nei ranghi inferiori della società. Di loro, di Christiane, di Babsi, Axel e Stella, si rimuove chirurgicamente quanto potrebbe essere ancora oggi, disturbante – compresi i capelli tinti di rosso fuoco di Christiane, mai realmente pettinati e raramente lavati, che nella serie si tramutano in un delizioso long bob mosso, corredato da frangia bombata, eversivo come la messa della Domenica – in favore della creazione ad hoc di una nostalgia patinata, verso un passato che, nella realtà, non è mai esistito. Se pure la moda ha avuto le sue colpe, in questo processo di recupero dell'estetica da Guerra Fredda – con Demna Gvasalia e Gosha Rubchinskiy come principali imputati – nessuna passerella degli stilisti sopracitati, e che negli anni e nelle zone del conflitto sono cresciuti, ha mai solo vagamente suggerito una rilettura zuccherosa di uno dei momenti più bui della storia contemporanea. Pur comprendendo la necessità di rendere il prodotto televisivo attraente per un pubblico più giovane, ci si chiede se, a monte, fosse necessario il recupero di un prodotto come Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, che, per via delle sue tematiche, difficilmente potrà parlare con i ragazzi della generazione Z, la cui unica, mortale dipendenza, è quella sviluppata di fronte allo schermo del proprio cellulare, tra social e filtri che deformano e sformano la percezione del sé, e la comprensione degli altri. A guardarlo, forse, saranno i ragazzi degli Anni 80, e solo quelli tra loro che sono sempre stati, fortunatamente, ai margini di una disperazione che, non potendo comprendere, possono solo idealizzare: quelli che, in buona sostanza, Tom Wolfe avrebbe chiamato, con il suo solito ironico sprezzo, "radical chic".