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L'ultima sfilata di Gaultier

A Parigi, l'ultima collezione dello stilista è la fine di un'epoca. O solo la conseguenza dei tempi?

Di Antonio Mancinelli
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La notizia che Jean-Paul (o Jean Paul?! Nessuno, in quasi 40 anni di carriera, è mai riuscito a dirimere o meno la prevalenza del trattino) Gaultier ha deciso di fermare le macchine per il prêt-à-porter, appartiene a quelle che ti lasciano un po' orfano. Pochi giorni fa, all'entrata da Moschino, pigiati in una folla delirante da concerto rock, una collega coetanea mi ha sussurrato: «Ehi, non ti sembra di essere a una sfilata di Gaultier degli anni 80?». Forse Jeremy Scott non sa che questo è il più grande complimento che possa ricevere. Perché era veramente così: ci si spintonava, si rischiavano ossa e reputazioni pur di entrare al suo défilé, il più ambito di quelli parigini.

Niente elegia, niente sospiri per i tempi che furono, per carità: chi scrive, s'impone come legge la negazione della nostalgia. Gaultier continuerà a disegnare (forse, chissà) l'Haute Couture e a diffondere i suoi profumi uomo e donna. Grazie a lui che ho capito come la moda superasse il concetto di vestito, quando vidi su una rivista dell'82 (andavo a scuola) una collezione fatta con i sacchi della spazzatura, accessoriata di bracciali in latta ricavati dalle scatolette di pomodori & co. Avere a che fare con lui, in quasi trent'anni di carriera (mia) è stato divertente, istruttivo, socialmente utile: Jean-Paul o Jean Paul è stato il primo a provocare, divertire, mandare in passerella capi/capitoli della storia della moda.

Ogni sfilata ha fatto parte dell'antica contesa tra la creatività libera da ogni costrizione e l'obbligo a vendere. Ed era come se lui ci chiedesse: ma tu, da che parte stai? Le sue non erano passerelle, ma luoghi di ricognizione dei punti deboli della società, su cui fare rapporto: la relazione maschio-femmina, la politica, la questione etnica, lo stereotipo come icona collettiva. Vedi: le gonne da uomo, la maglietta dei marinai bretoni, le giacche con il gancio di stoffa sulla schiena, i reggiseni a punta adottati da Madonna nella sua tournée più bella e che – dicono – alla fine ebbe il timore che gli abiti di scena diventassero più visibili di lei, le religioni e la tecnologia, lo humour e la tragedia.

Tutto redento da uno chic di quelli ce-l'-hai-o-non-ce-l'-hai (lui ce l'ha). Ha pariginizzato il mondo, tanto che la Francia dovrebbe eleggerlo presidente onorario per la pubblicità che le ha fatto dal '76 a oggi. Ha depariginizzato Parigi, facendone una meta internazionale grazie ai suoi eventi cui non si poteva mancare. Ha cantato, ha ballato (lo incontravo nelle discoteche dell'Emilia Romagna quando era prodotto da Alberta Ferretti, e ci siamo divertiti, oh se ci siamo divertiti), ha fatto il presentatore, lo chanteur, il filosofo, si è misurato con un colosso dell'estetica francese come Hermès, ridisegnandolo senza snaturarlo.

Nelle ultime collezioni tendeva a ripetersi, magari la luce del suo genio si era un po' appannata e le vendite dei vestiti erano diminuite (quelle dei profumi, no). Gli ipocriti si sono lamentati della qualità ideativa un po' troppo identica a se stessa, come se non sapessero che il sistema della moda è cambiato e che gli avvoltoi dei poli del lusso badano solo a un segno “meno” davanti ai fatturati. Ci ha fatto ridere, ci ha fatto commuovere, ci ha preso per i fondelli (la parata delle mises e delle modelle à la Anna Wintour, Grace Coddington, Emmanuelle Alt, Franca Sozzani, rimarrà a lungo nel cuore) per cui ci perdonerete se adesso la lacrimuccia scappa. E ci sentiamo ancora più disancorati, in mezzo a un mare grande di numeri e percentuali che ci fanno rimpiangere chi ha portato la moda a una dimensione metaforica. “Rimpiangere”: sì, l'ho detto. E vabbè. Per Jean-Paul o Jean Paul, questo e altro.


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Il gran finale della sfilata Jean Paul Gaultier SS 2015.

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Come Grace Coddington.

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Come Anna Wintour.

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Come Emmanuelle Alt.

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Come Carine Roitfeld.

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Come Suzy Menkes.

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Come Franca Sozzani.

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Anna Wintour si becca la fascia.

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