I Grammy 2020 sono appena andati in scena, consegnando i suoi riconoscimenti e raccontando, a suon di performance e award, la musica di oggi, e anche domani — Billie Eilish, regina di maxi tute logate e portatrice sana di un talento fuori dal comune ha portato a casa cinque premi – ma, a voler analizzare il red carpet, gli abiti indossati dai presenti, candidati e non, fanno tanto rumore quanto le performance musicali di tributo a Prince ( con Usher, Sheila E. e Fka Twigs impegnata in una abbacinante pole dance ) o quella di Demi Lovato – rotta dall'emozione – di un suo brano scritto 4 giorni prima della sua ultima overdose, in una battaglia contro le dipendenze che non conosce ancora un lieto fine. E, per una volta, il fenomeno nulla ha a che fare con l'ossessione, comunemente ed erroneamente associata in maniera esclusiva a un genere, quello femminile, del "chi ha vestito chi". Negli anni infausti della presidenza Trump, del negazionismo elevato a Controcultura, del cospirazionismo orchestrato ad arte online, per sfociare tristemente nella vita reale, neanche l'establishment musicale può permettersi la leggerezza della narrazione favolistica alla quale di solito ha abituato gli spettatori dello show. Archiviate, almeno momentaneamente, le gare a suon di tulle per guadagnarsi il titolo de "la più bella del reame", la vestizione assurge a sinonimo di appartenenza politica o di genere. D'altronde, se un pensatore com Roland Barthes sosteneva che "la moda è il diritto naturale del presente sul passato, un rifiuto di ereditare, il sovvertimento del vecchio", si capisce come, le misure drastiche prese quest'anno da donne e uomini rappresentino un impellente desiderio di non essere identificati con l'America xenofoba e fondamentalista incarnata dal governo attuale.

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Se Billie Eilish gioca fuori categoria, essendo riuscita a creare un guardaroba sinonimo di un'espressività fuori dalle regole, mixando i dogmi della cultura rap degli Anni 90 con le grafiche artsy-pop di una divinità dell'arte contemporanea come Takashi Murakami, gli altri si impegnano nelle battaglie di competenza. Da quando "l'awakeness"è il nuovo mantra di Hollywood e dintorni, d'altronde, se non si ha una causa alla quale affiliarsi, per sincera empatia o per furbo marketing, si rischia il dimenticatoio digitale, lontani dalla vetta dei trending topic di Tiwtter. Lil Nas X, ad esempio è riuscito, in una sola vita e in un solo corpo a infrangere diversi tabù, da meritare un Guinness dei Primati ad hoc: non solo il primo cantante country di colore – laddove la musica country in America è da sempre ad esclusivo appannaggio dei Redneck – ma anche dichiaratamente gay. Non stupisce quindi che sia giustamente orgoglioso dei risultati ottenuti in soli 21 anni di vita, e lo mostri con un completo da cowboy Versace total pink, e anche con il completo in lurex argento firmato da Dapper Dan e Gucci, con il quale si è poi esibito.

Della propria identità sessuale, di una personalità troppo sfaccettata e ingombrante per rientrare nei soliti canoni prestabiliti, è il momento di essere fieri: il maestro del genere è sempre Billy Porter, il Pray Tell di Pose, che si è presentato all'evento con un cappello animato da un controller remoto, una tendina di glitter che si apre come una quinta scenografica, a mostrare uno sguardo affilato, grazie ad ombretti in azzurro ciano, ton sur ton con il resto dell'outfit. Essendo questo l'ultimo esperimento stilistico di una lunga serie – come dimenticare l'ultimo MET Gala al quale è arrivato su una portantina, addobbato come una divinità dell'Antico Egitto – il rischio è però che l'attore, più che l'alfiere di una mascolinità 2.0, si trasformi in un "generatore automatico di outfit di Billy Porter". Il monumento alla body positivity è quello di Lizzo, incapace per Dna di sentirsi a disagio se il suo corpo non corrisponde agli stereotipi di bellezza femminile — perpetrati per secoli e oggi, finalmente, combattuti a colpi di je m'en fous, da cantanti e attrici di spicco. Gloriosa in un abito bianco di Versace, con spacco e scollo, la stola è chiaro omaggio al sogno erotico imperituro degli americani, Marilyn Monroe.

Per dovere di cronaca, è però necessario segnalare che i supporter di Trump vivono non solo negli incubi dei liberal-democratici, ma anche sulle passerelle dei Grammy: l'attrice e autrice Joy Villa, ha infatti sfilato sul red carpet con un abito lungo in latex rosso sul quale era applicata la scritta "Trump 2020", una cappa bianca con le stelle della bandiera americana sulle spalle, e una clutch con dei cristalli che disegnavano l'animale simbolo dei repubblicani, l'elefante. L'intelligenza e il buon senso non trascendono dall'appartenenza a un partito politico, ma il buon gusto forse sì. Chi, invece, dall'altra parte della barricata, ha scelto di giocare secondo le vecchie regole, quelle che imponevano agli ospiti di presentarsi spogli di qualunque idea politica, ma carichi di paillettes e con accordi di collaborazione con le maggiori maison, lo ha fatto perché non ha più molto da dire, o, al contrario, non ha nulla da dimostrare: è il caso di Beck, artista losangelino poliedrico e sinonimo dell'indie rock sin dai primi Anni 90, arrivato in completo gessato con tanto di gilet e fiore all'occhiello, ravvivato però dai glitter, così come di Lana Del Rey. Autrice dal talento ormai riconosciuto, rassicurata dai risultati di un ultimo, e bellissimo album da poco uscito, Norman Fucking Rockwell!, è arrivata sul red carpet fornita di un abito che ha ammesso candidamente di aver comprato al centro commerciale, e dell'accessorio più bello che una donna possa avere, secondo Yves Saint Laurent, ovvero un uomo al suo fianco. Alla prima uscita pubblica con il nuovo fidanzato, il fascinoso poliziotto Sean Larkin, Lana ha abbandonato lo sguardo velato dalla tristezza, retaggio delle attrici Anni 40 alle quali si ispira, in favore di sorrisi aperti e tenerezze diffuse. A giocare in un campionato non più molto affollato, quello della "più bella della festa" un titolo che a pochi interessa, sono rimaste Ariana Grande, presentatasi in una nuvola couture di Giambattista Valli, Dua Lipa, ormai incastrata nei Nineties nei quali sogna di vivere, con un outfit che ricorda le migliori uscite di Jennifer Aniston all'epoca di Friends o anche Gwyneth Paltrow pre-Goop, e varie teen star, da Camila Cabelo al gruppo K Pop dei BTS, un esercito di replicanti appena scesi dalla passerella. Sono lontani i tempi delle Fashion Police americane, che davano i voti ai look, via cavo, e live, con somma cattiveria e molto poco inclini all'inclusivity, alla positivy o a qualunque altro -ivity figlio di questi tempi. L'obiettivo è unire, non dividere. Le polemiche vere si fanno con le parole, e sul palco, come Tyler The Creator, eclettico compositore americano che ha ritirato il premio per il miglior Album rap dell'anno (Igor). "Da una parte", ha detto, "sono molto grato, dall’altra non posso fare a meno di notare che ogni volta che un artista di colore vince per un’opera musicale, di qualsiasi genere questa sia, viene inserita sempre nella categoria “rap” o “urban”. Perché non possiamo essere considerati semplicemente artisti pop? Non mi piace quella parola “urban” . È solo un modo politicamente corretto per dirmi la parola che inizia con la “n”. Abiti fatti per unire, polemiche fatte per riflettere.

L'America sempre più terrorizzata da una rielezione di Trump, oggi, è anche questa.