Armati di AirPods e loop di Nino Rota siamo andati al Palazzo del Monte di Pietà per visitare la mostra dei gioielli di Moira Orfei, che sarà aperta fino al 28 ottobre, un giorno prima di essere battuta all’asta.

Il Palazzo (già Santacroce Aldobrandini, poi Petrignani, oggi temporaneamente Orfei-degli Elefanti, a giudicare dallo stendardo sulla facciata) domina la piazza omonima nel cuore del rione Regola, tra le rive del Tevere e Corso Vittorio. Cinquecento anni fa fu inventata qui — e mai più abbandonata — la pratica del prestito su pegno. Scopri di avere un bisogno, entri con un oggetto prezioso da impegnare, viene valutato, esci con il prestito corrispondente dopo aver concordato tempi e interessi per riscattarlo, altrimenti va all’asta. È una forma di microcredito vintage e a condizioni vantaggiose, per tutelare il popolo da usurai, burocrati, quinti dello stipendio, secondi cugini ricchi e dalle possibili, tremende combo tra di essi. È ancora oggi una banca per quando le banche ti voltano le spalle, gestita da una società che si chiama Affide (da ad fidem, “per fiducia”). La piazza intorno è piena di Compro Oro e Compro Rolex, come un mammifero grande e gentile che, vuoi per l’abitudine, vuoi per la rassegnazione, non fa una piega davanti alle gioiose bùfaghe che, giorno dopo giorno, gli pranzano e digeriscono sul dorso. In questi altri luoghi vince chi è più spudorato: quasi sempre, l’acquirente; e l’oggetto deve essere prezzato al minimo, con sopraffazione tattica del prezioso e — di conseguenza — del suo proprietario. Il Monte di Pietà (in osservanza dell’emozione flagship corrispondente) è invece un orfanotrofio di monili sperduti di cui moltissimi ospiti — Affide dice il 95% — dopo un lasso di tempo personalizzato, ritrovano la loro famiglia; mentre i restanti sono attesi febbrilmente da un nuovo destino: nuove case, nuove avventure.

Moira degli Elefanti... e dei Brillocchi grandi come tali

Qui non c’è nulla dell’antropologia dei reality sui pawnbroker americani. Ovunque, dalle sale destinate alla mostra agli uffici per le perizie, regnano lindore e un certo lusso sobri e disciplinati, nel modo tipico dei luoghi di culto benestanti ma un po’ fuori dal mondo, tipo tempio mormone. Come l'interior design dei palazzi dei tribunali è pensato per incutere timore reverenziale al pubblico, l’arredo di questo è governato dal duopolio dei patti chiari e amicizia lunga: sportelli discreti per valutare e trattare, ma anche luminose teche da gioielleria, per esporre gli oggetti ormai destinati alla vendita. Così è per quarantotto pezzi della collezione della Regina del Circo italiano, scomparsa cinque anni fa. Non lo avreste immaginato ma, per rendere omaggio a Moira degli Elefanti — e dei Brillocchi grandi come tali — non ci sarebbe stato luogo migliore se non le stanze di questo Palazzo. Il fatto è che, esplorando i suoi piani e le sue stanze, stracolmi di bilancini e lenti d’ingrandimento, di aspirazioni e di umiltà, capisci che il nomadismo dei gioielli impegnati non è meno antico, tortuoso o romantico di quello delle carovane dei Maestri di Circo.

lanciava instancabilmente il suo manifesto-confessione: l’impossibilità di restare fermi

Moira, questa donna con sorriso da Carmen Miranda e quadricipiti da Serena Williams, ben nascosti sotto la cofana d’ordinanza, figlia di una funambola e di un clown, fu cavallerizza, trapezista, acrobata, addestratrice di leoni e precettrice di colombe. Ma se non avessimo visitato questa mostra, ideata da Alessandro Serena di Circo e dintorni e da Aurelio Rota di Lonato in Festival, nell’ambito del progetto di diffusione della cultura circense Open Circus, non ci sarebbe mai stato chiaro quanto fosse anche una domatrice di collier e di parure. Fra le foto appese alle pareti delle sale del pianterreno, che si alternano alle vetrine coi gioielli e alle bellissime didascalie, spiccano quella con Marcello Mastroianni, in cui i capelli della cofana sembrano essersi sciolti, per il tempo dello scatto, magicamente e autonomamente; e quella con la scimmietta in braccio, che la guarda fissa in volto, che sembra la versione circense di una Madonna con bambino. Anche quando sembra rilassata Moira sembra volerci ricordare la fatica di percorrere, per tutta la vita, insieme alla famiglia, la rotondità della pista del circo più grande d’Europa (all’apice della sua potenza) in un mondo destinato a volgere sempre più alle ristrettezze ortogonali di piccoli e piccolissimi schermi; la tensione di essere una giostra umana, in continuo movimento, per un pubblico che si sarebbe trovato di lì a poco sempre più a suo agio nei cubicoli mediatici cui le nuove tendenze dello spettacolo e dell’esistenza l’avrebbero ridotto. Moira impersonava un capitolo di storia vivente degli show popolari, colto nell’epoca del suo ultimo vagito di fisicità e, cosa ancora più importante di ogni atto funambolico o comparsata cinematografica (recitò con Vittorio Gassmann e Totò; con Nino Manfredi e, naturalmente, Federico Fellini), lanciava continuamente e instancabilmente il suo manifesto-confessione: l’impossibilità di vivere restare fermi nello stesso posto, un accorato e inascoltato invito a cercare, finché si era in tempo, qualcosa di meglio che illudersi di essere ovunque pur restando sempre a casa.

Per 50 gli italiani si sono ripetuti: non sappiamo niente di circo, ma sappiamo quale circo ci piace

Portava sulle spalle il peso della missione di traghettare fino alle soglie del XXI secolo la tradizione di svariate generazioni della sua famiglia e di quella di suo marito, i Nones, usando il suo volto e il suo carisma in modo poliedrico e multidisciplinare, fino a diventare un personaggio della televisione, quando i numeri ai trapezi e le carezze ai pachidermi cominciarono a non bastare più. Che influencer sarebbe stata Moira oggi, pur se disponendo di un solo contenuto brandizzato: il suo circo. Del resto, per cinquant’anni gli italiani si sono ripetuti: non sappiamo niente di circo, ma sappiamo quale circo ci piace. Quello di Moira.

I suoi pezzi in mostra non sono quasi mai prodotto di griffe altisonanti e, tranne che per pochissimi casi (come l’anello con diamante che ha una base d’asta di venticinquemila euro), della montatura di gemme il cui valore simbolico o affettivo superi quello materiale. Semmai sono frutto di incontri con artigiani e stili di gioielleria provenienti da ogni luogo del mondo in cui portò il circo Orfei: Belgrado, Berlino, Madrid, Barcellona, Istanbul, Sofia, Teheran, Tripoli, Malta, Monte Carlo, Atene, Salonicco, Zagabria. Dietro alcuni di essi ci sono romanzi come quello che, sul finire degli anni Settanta, scoppiata la Rivoluzione khomeinista nel mezzo di una tournée persiana, vede Moira riparare in Italia a bordo del transatlantico Achille Lauro, inviatole dalla Farnesina perché la trasportasse a casa insieme a centocinquanta tra colleghi umani e non.

Che influencer sarebbe stata oggi, pur se disponendo di un solo contenuto brandizzato: il suo circo

Alcuni lotti sono così voluminosi che viene il sospetto che fossero loro a domare lei, e non viceversa. Ma è solo un’illusione. Il pezzo forte della mostra è un collier fatto di mezz’etto di smeraldi colombiani, con base d’asta di quindicimila euro. Moira aveva solo una risposta alla domanda, per lei sempre retorica, dell’orefice di turno: Che faccio, lascio? Smeraldi e leoni a colazione, pranzo e cena. Quelle pietre verdi la raccontano molto bene. Sono grandi e appetitose come altrettante Belle di Cerignola Dop, nate per essere servite in tavola allo stato grezzo, ma per niente imbarazzate dalla stortura del fato che le ha consegnate agli umili vezzi di quelle montature di perle coltivate, che le avvolgono e trasfigurano come una panatura di olive ascolane. Altri pezzi sembrano insospettabilmente discreti, ma ne leggi più attentamente le didascalie e ti rendi conto che fanno sì parte della stessa mostra, ma non sono di provenienza orfeiana: sono stati aggiunti da Affide, dando fondo ai suoi depositi, per cercarne di affini agli altri (è spuntato fuori un braccialetto con tre elefanti in oro), perché i lotti potessero raggiungere la soglia dei cento, necessaria per bandire un’asta regolamentare.

Tutte queste parti di Moira sono concorse qui, insieme, per ricostituirla intera, giusto per un mese, per poi riprendere ciascuna la sua strada raminga sui polsi, sui colli e alle orecchie di chi se le aggiudicherà. Da faraona contemporanea e gitana qual era deve aver scritto questa postilla al suo testamento nomade, il cui aldilà non è nel chiuso di una piramide ma in giro per l’Italia, magari in casa di chi l’amava particolarmente. Quei fortunati porteranno con sé un pezzo della navicella-roulotte, arredata come un’astronave di bambola (del resto non mancò, tra i memi ante litteram generati dalla Orfei, insieme alla Moira-Bag e alle Drag Queen che si moirizzavano negli show, proprio la Barbie-Moira) che la Regina del Circo abitò per tutta la vita, disincline a ogni alternativa statica. Questa mostra e questa asta non saranno allora solo espressione della nostalgia di Moira Orfei, ma anche di quella del viaggio e del moto, nella nostra vita ahinoi momentaneamente sedentaria, e non solo a causa della pandemia in corso.

affiche pour le cirque moira orfei à parme, dans les années 1970, italie photo by jean erick pasquiergamma rapho via getty imagespinterest
Jean-Erick PASQUIER//Getty Images