«L’abbinamento rossetto rosso e orecchini a cerchio, è ispirato a Sonia Sotomayor (giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, ndr) a cui consigliarono di mettersi uno smalto neutro, per evitare di essere giudicata. Lei ha tenuto il suo solito, rosso. Così, la prossima volta che qualcuno dirà alle ragazze del Bronx di togliersi gli orecchini, potranno dire che si vestono come una deputata». Questo il tweet con cui Alexandria Ocasio-Cortez (in apertura, ndr), la più giovane parlamentare eletta nella storia americana, nel giorno del giuramento ha commentato il suo look: tra l’altro, normalissimo su una ragazza che ha compiuto 31 anni lo scorso 13 ottobre. E, in altre interviste ha sottolineato che il suo blazer bianco era un richiamo al colore-simbolo delle suffragette così come ha furiosamente voluto una giacca scarlatta per asfaltare di fronte al Congresso il rappresentante repubblicano Ted Yoho, che l’aveva insultata. Jacinda Ardern, primo ministro neozelandese lodata per la strategia antipandemia e per le lotte a favore delle donne (tra cui combattere la tampon tax regalando assorbenti alle giovani colpite da quella che è eufemisticamente chiamata Period poverty) si veste come per un aperitivo con le amiche: alterna abiti vintage e nuovi ma a costi contenuti, bijoux geometrici non preziosi. Elementi cui aggiunge capi e gioielli di artigianato Maori o musulmano, un omaggio alle comunità etniche più numerose del Paese.
Ivanka Trump ha di recente lasciato nell’armadio le giacche strutturate - anche perché le porta la sua matrigna - e si affida a toni rosa e crema: sfumature lievi destinate a stemperare la polarizzazione della società americana d’oggi. Ancora: da quando Joe Biden ha nominato come vicepresidente Kamala Harris, prima donna di colore, discendente da antenati indiani, per prima cosa ci si è concentrati sui suoi tailleur pantaloni (nipotini di quelli indossati da Hillary Clinton, per cui era stato coniato addirittura l’hashtag #PantsuitNation) ma corredati dalle perle della nonna e da Converse di ogni modello, purché bianche. Vera metafora di chi vuol fare strada senza indulgere alla vanità del tacco alto, perché orgogliosa della propria statura.
Naturalmente fiumi d’inchiostro vengono sparsi per analizzare i guardaroba di una generazione di leader (donne, ma anche uomini: siamo la patria di un ex ministro degli interni più trasformista di un cosplayer giapponese e di parlamentari che prima si facevano fotografare seminude sui calendari e oggi sembrano suore laiche) che, più o meno consapevolmente, usano il vestire come alleato, facendone mostra sugli account Instagram, concedendo interviste a riviste patinate o in video apparentemente amatoriali disseminati su YouTube. Del resto, è quasi inutile ripetere come già l’atto di mettersi qualcosa addosso si può classificare politico da quando i primi umani, dopo aver intrecciato varie tuniche d’erba ne hanno preferito una. Dunque: sono scelte strategiche o «autentiche espressioni di personalità», come gli interessati dichiarano a ogni piè sospinto? Di sicuro sono il risultato di un mondo dominato dai social, trasformato dalle tempeste del #MeToo, del #BlackLivesMatter e di un’emergenza sanitaria mai vista prima che spariglia codici e regole anche nelle relazioni tra moda e potere, oggi cambiate. C’è stato un tempo in cui un paio di Clarks e una giacca di velluto significavano “essere di sinistra” o un completo o un tailleur blu incarnavano i princìpi del conservatorismo. Il concetto di “divisa”, per i politici e soprattutto per le politiche, sta perdendo quella capacità di sintesi che racchiude in sé contenuto e forma, apparenza e sostanza. Sostiene la sociologa Maria Cristina Marchetti, autrice del recente Moda e politica (Meltemi), che tutto è iniziato dagli anni Novanta in poi. Solo allora, dopo i tailleur-divisa di Margaret Thatcher (anticipati dai cappottini confetto di Elisabetta II), per le donne nei ruoli di potere è stato possibile riappropriarsi del loro rapporto con la femminilità.
Prima, per raggiungere autorevolezza avrebbero dovuto attenersi a un modello maschile, adattarsi a uno schema che da 200 anni regola l’universo della politica e ne segna l’esclusione dalla moda. Ora mantengono sempre un certo aplomb istituzionale, ma rinunciano meno alla loro personalità. E questo le espone al rischio di far passare il loro aspetto esteriore sopra alle loro idee. In Italia, dove nessuno si scandalizza per il sistema dell’istruzione ma per il colore delle labbra di chi ne ricopre il ministero, siamo sempre pronti a giudicare l’aspetto dei potenti secondo parametri sessisti da film Malena con Monica Bellucci: a maggior ragione se femmine. Analizzate con la perizia di un entomologo malmostoso, pronti a valutare ogni mise e a criticarle, dove l’avverbio prediletto è troppo: troppo noiosa, troppo frivola, troppo scontata, troppo sexy, troppo mascolina. In ogni caso, inadeguata. O inadeguato. I dilemmi sartoriali tormentano anche i maschi: Vladimir Putin è passato dalle sgargianti camicie Versace di quando andava in una Sardegna ancora incontaminata a incontrare l’amico Silvio a elegantissimi completi di Brioni per ottenere carisma e sintomatico mistero; Emmanuel Macron sceglie di sigillarsi dentro abiti aderenti ma non troppo, perfetti per esaltare la sua figura snella e atletica, simbolo fisico di una nazione dinamica e giovane. Il premier canadese Justin Trudeau, conscio della sua avvenenza, ha inaugurato la “diplomazia del calzino” con modelli dai colori lisergici, in tono col ruolo di aitante guida di un mondo libero. Rimane il dubbio che la rinuncia alla divisa istituzionale del passato diventi a sua volta una forma più sofisticata di un’altra divisa: quella di “volontaria rappresentazione del sé” che trasformano i leader di oggi - soprattutto le donne - in potenti influencer che fanno concorrenza a Chiara Ferragni (un esempio: il girocollo d’oro con le lettere-ciondolo V-O-T-E di Michelle Obama è un bestseller nel mondo).
Forse, se fossimo meno voyeur e più dediti all’ascolto, meno epidermicamente curiosi e più intenti a controllare i risultati delle dichiarazioni programmatiche, potremmo davvero fidarci della sovrapposizione tra stile e sostanza. Forse, più che giudicarli è il tempo di riflettere sugli abiti dei leader senza per forza renderli notiziabili, apprezzarne con giudizio i messaggi sottintesi che trasmettono per comprendere meglio quali siano costumi di scena e quali no di quel che non a caso si chiama teatro della politica. Ci sarà pure un perché.