Può l’amore essere inscatolato, dipinto con l’oro, decorato da pietre preziose e intagliato da linee e decori sopraffini? Di sicuro. Soprattutto se chi lo desidera è una coppia che ha sempre creduto nella bellezza dei piccoli oggetti, nell’artigianato certosino e in gesti dimenticati. È accaduto il secolo scorso a "Kate e Sadri" o meglio Catherine Aleya Beriketti Sursock e il principe Sadruddin Aga Khan. Lui era il discendente di uno degli Imam dei musulmani ismailiti nizariti (sparsi nel mondo si dice siano oggi circa 15 milioni). Lei invece, quando si sposò nel 1972, aveva già avuto tre figli dal benestante libanese Cyril Sursock: Alexandre, Marc e Nicolas. Una prole che vedeva un secondo papà in questo uomo dal sorriso mite e di nascita parigina. D’altra parte Sadruddin, dopo Harvard, era un pacifico leader già abituato a trattare questioni internazionali, avendo dal 1966 al 77 ricoperto cariche importanti presso l’UNHCR. E visionario come pochi, aveva aperto la sua Fondazione a tutela di flora e fauna delle Alpi ma che portava anche un ecologico senso di rispetto verso tutta la natura.
La loro casa a Bellerive era il maniero più antico e ben tenuto del Cantone, risalente al 1600 (venduto l’anno scorso per 106 milioni di franchi svizzeri) con tanto di parco privato, vista sul lago Lemano e arredi di Henry Samuel. Leggenda vuole che alle loro cene Catherine e il marito preferissero optare per insalate e riso integrale, essendo vegetariani, anche quando offrivano ai loro ospiti luculliani banchetti. La vita a castello era amabilmente festosa, ricca di cene diplomatiche ma anche di eventi culturali riservati a pochi eletti tanto che alcuni artisti come Claude Lalanne, Diego Giacometti o Philippe Hiquily divennero amici e arredarono con pezzi straordinari gli aristocratici spazi.
Inutile dire che i gioielli in cassaforte erano sontuosi come tutti quelli degli Aga Khan (suo padre per il 70mo compleanno si fece regalare tanti carati quanto i chili che pesava) ma mai esagerati o di troppo come quelli offerti dal più famoso cugino Kerim Aga Khan alla consorte Salima. Sadruddin non amava lo sfarzo dei carati, né voleva passare alle cronache per gli esorbitanti costi di certe parure, seppure la prima moglie Nina Dyer ne avesse pretese di straordinarie. Proprio per questo preferiva sempre puntare su affetti e ricordi, corrisposti e speciali nati da momenti di reciproca scoperta. Come la stessa Kate Aga Khan ammise: «Quando ero giovane ed eravamo ad Alessandria d’Egitto, collezionavo foto di attrici americane, che poi mettevo in scatole di latta per i biscotti. Mai avrei pensato di possedere una collezione così unica di gioielli che rappresentavano libertà, modernità e bellezza». E d’altra parte anche se erano “scatolette ingioiellate” queste jeweled box rappresentavano un comune e incondizionato amore per il passato (dagli anni 20 agli anni 30), per l’eccezionale (erano miniature sui dieci centimetri) e per l’utile (contenendo ciprie o sigarette, erano dei necessaire indimenticabili).
"Sadri" sapeva bene che Kate amava i libri antichi, specie se avevano copertine e rilegature grafiche Art Déco e un giorno pensando anche a questo, passò da Cartier dove era già cliente e si fece conquistare da un vanity case. Ne seguirono altre in cui osava anche contrattare il prezzo (sempre da Cartier da 950 sterline ne offrì 850 ovvero 14mila sterline se si considera il tasso di cambio storico dell’epoca).
Come ricorda Pierre Rainero, il direttore degli archivi, stile e immagine di Cartier nel volume Jeweled Splendour of the Art Deco (ed. Thames&Hudson): «La collezione arrivò a quasi 100 pezzi fra sigarettiere, porta cipria, minaudière e vanity case con orologi». Sadruddin sapeva bene che le sedi di Cartier nel mondo ma anche la Place Vendôme (la piazza dei gioiellieri a Parigi) e altri antiquari avrebbero riservato sorprese per gli anni a venire.
Scelti da lei, trovati da lui o proposti dai gioiellieri (come testimonia una lettera del 1968 di Cartier Londra) erano sempre diversi negli stili. Non solo miniature persiane ma omaggi alla natura selvaggia cinese grazie a Black, Starr & Frost, lacche giapponesi eleganti e lineari oltre a femminili finezze tubulari di gusto Impero. Fra queste alcune erano stemperate da Strauss Allard&Meyer da sfavillanti papaveri e anemoni di Bensimon, fiori di prugno indiamantati, cipressi stilizzati di Van Cleef&Arpels e pantere Cartier quasi tridimensionali tanto con cura erano state create.
Seppure le dediche incise erano abbastanza telegrafiche, l’ultima jewelled box, del 1927, firmata Van Cleef&Arpels (come molte altre), è la più emozionante. Non certo per il suo motivo geometrico a foglie ma per i caratteri cubitali con cui Sadruddin scriveva alla consorte. «A Kate da Sadri, trent’anni (e più) di felicità. 25 novembre 2002».
Fu l’ultima perché il 12 maggio dell’anno dopo morì a Boston per un cancro (lo stesso giorno in cui anni prima mancò il fratello Alì in un incidente d’auto). Fortuna vuole che ora questa inestimabile collezione ha viaggiato per il mondo per essere ammirata tra musei (Cooper-Hewitt a NYC nel 2017), scuole (come lo è stato nel 2018 all'Ecole VanCleef&Arpels di Parigi) e istituti nel mondo. Covid permettendo, si potranno ammirare ancora dal vivo.