Una rivincita contro la dittatura estetica hollywoodiana, ma anche di altre latitudini; un dito medio all'ageismo; una mano tesa ad una nuova forma di matriarcato, privato dell'astio di genere verso la controparte maschile, ma rinvigorito dalla potenza della sorellanza. Sembra la réclame di un qualche movimento social-politico negli anni post- Weinstein, è la trama – e la morale – del film Il club delle prime mogli, lungometraggio prodotto nell'Anno Domini 1996. Basato sull'omonimo romanzo di Olivia Goldsmith, il racconto mette al centro tre donne, amiche all'università, poi perse per le strade della vita, che vengono riportate insieme da un evento luttuoso, il suicidio della quarta componente del gruppo originario, Cynthia. Un incipit sul quale poi si è basato anche un serial televisivo di successo come Desperate Housewives, e che però prende tutta un'altra piega, virando dalla Wisteria Lane dei pettegolezzi tra i viali alberati della periferia e dagli aitanti idraulici in necessario jeans avvolgente, per parlare di tre donne che sono ad un incrocio ben più importante della loro vita. Annie (Diane Keaton) Brenda (Bette Midler) ed Elise (Goldie Hawn) si ritrovano per scoprire che, al di là della facciata di rispettabilità che tutte vogliono mantenere, condividono lo stesso ironico e banale destino: essere state abbandonate dai loro compagni per donne ben più giovani, che poi era lo stesso destino toccato alla loro comune amica Cynthia.

united states   january 16  goldie hawn, bette midler and diane keaton l to r hang onto a building scaffold as they film the movie first wives club at fifth ave and 87th st,  photo by richard corkeryny daily news archive via getty imagespinterest
New York Daily News Archive//Getty Images
Una scena del Club delle Prime mogli, film del 1996

A giocare un ruolo importante nella trama, ad evolversi insieme alle donne, che passano dall'organizzare un articolato piano per vendicarsi dei consorti fedifraghi a obiettivi di ben più ampio respiro, sono i vestiti. Le tre donne sono contraddistinte da altrettanti stili definiti, pensati per loro dalla costumista Theoni V. Aldredge – premio Oscar per le mise del Il grande Gatsby del 1974, dove il ruolo del magnate era di Robert Redford – che ne raccontava la genesi al Los Angeles Times, proprio nel 1996. "Il gusto e lo stile delle attrici era molto simile rispetto a quello dei ruoli che avrebbero ricoperto, quindi non è stato particolarmente difficile" commentava. Per il ruolo di Brenda, casalinga con marito imprenditore – irretito dal fascino acerbo di una Sarah Jessica Parker senza scrupoli – si pensa a un look fatto di gonne a tulipano, in nuance calde dal rosso al marrone e blazer con il punto vita definito, per esaltare la silhouette di Bette Midler. Elise, attrice e produttrice alla disperata ricerca della gioventù, e di un chirurgo che accetti di operarla fino a deformarne il volto, si sente a suo agio in un guardaroba esplicitamente seducente, che metta il risalto una figura longilinea, e capace di gareggiare con quelle delle prossime stelle del grande schermo. Liquid leggings, pantaloni skinny e minigonne in pelle, blazer cropped, lo sportwear – necessario per mantenersi in forma sul tapis roulant, attrezzo fautore di machiavelliche riflessioni – è nei body, firmati da Reebok. Infine Annie – il cui nome sembra evocare un altro ruolo che ha definito la carriera della Keaton, la Annie Hall di Woody Allen, continua a preferire completi maschili dal taglio sartoriale, giacche dalla vestibilità over in pelle di Calvin Klein e cardigan in cashmere di Giorgio Armani. Prima che l'arte delle costumiste divenisse un business perorato dalle grandi maison – che lo hanno poi visto come un'occasione per farsi pubblicità – i vestiti andavano comprati. E così successe in quel caso. Aldredge acquistò tutto nei department store newyorchesi, da Barney's a Saks Fifth Avenue, per poi riadattare i pezzi alle diverse fisicità delle attrici, esaltandole.

Un look che paga il dovuto tributo alla moda anni 90, tramite montoni e cappotti in suède con collo in shearling, cappotti cammello e piumini con polsi bordati in pelliccia, da indossare in maniera informale sopra i jeans, e che si mantiene uguale per buona durata della pellicola, e che si decide a cambiare solo quando le tre modificano il loro piano iniziale: non più rivalsa rancorosa ma sorellanza, con la fondazione di una organizzazione no profit – foraggiata dai portafogli maschili – dedicata alle donne vittime di abusi, e che sarà intitolata proprio a Cynthia. Unite dall'odio verso un nemico comune, le tre donne evolvono solo quando si rendono conto che le loro energie saranno meglio spese in un'altra causa, quello del sostegno al mondo femminile. La scena finale, e passata alla storia della cinematografia, le vede infatti di bianco vestite al gala di apertura della fondazione, esibirsi nella canzone You don't own me di Lesley Gore che cantavano insieme sin dai tempi del liceo. I volumi degli abiti sono gli stessi, Elise ha pantaloni stretti e giacca avvitata, Brenda gonna a tulipano e blazer con vita definita, Annie una giacca maschile e gonna al ginocchio ("lei era abituata a portarle sotto il ginocchio" spiegò Aldredge "un po' come in Annie Hall. Fu necessario che le cucissi l'orlo più su e le scattassi una polaroid per rassicurarla sul fatto che stava benissimo anche così"). Il colore, però, è simbolo di un ritrovato femminismo – con il bianco come colore storico del movimento delle suffragette – e di una nuova purezza nei confronti della vita, dell'amicizia, e, chissà, dei futuri amori. Una scena che ha assunto significati similari anche per giovani donne che nel 1996 erano poco più che bambine. Parliamo qui di Ariana Grande (nata nel 1993), che, nel 2018, durante l'esibizione del suo singolo Thank u, next, da Ellen DeGeneres, si è presentata con due ballerine che come lei erano di bianco vestite, in un tributo alla pellicola che la cantante dice sia tra le sue preferite di sempre, al punto da citarne a memoria le battute. E cosa c'è in fondo di più liberatorio di tre donne che si prendono una rivincita sulla vita che ha tentato di metterle in un angolo, e ne escono più forti grazie ad un rinnovato senso di comunità? Solo tre donne che riescono a guardare al futuro con il coraggio sfrontato che avevano condiviso già da ragazzine, intonando convinte "non mi possiedi, non dirmi cosa dire, non dirmi cosa fare, è tutto quello che ti chiedo".

"I soldi veri vanno ai ragazzi e agli uomini, per film che sono costosi, ma hanno un grande ritorno economico. Per esempio ne Il club delle prime mogli, eravamo tutte donne di una certa età, e ognuna di noi si abbassò lo stipendio per permettere allo studio di affrontare l'intera produzione. E il film andò benissimo, divenne un immenso successo, e fece un sacco di soldi", aveva raccontato nel 2015, a 19 anni dall'uscita del film (un successo al botteghino, costato 31 milioni di dollari che ne guadagnò 181) la stessa Goldie Hawn. Commentando con l'Harvard Business Review il potere rivoluzionario della pellicola. "Quando due anni dopo ci proposero un sequel, gli studios volevano offrirci esattamente gli stessi soldi della prima volta. Eravamo tornati al punto di partenza. Se fossimo stati tre uomini, avrebbero alzato i loro compensi senza neanche pensarci su. Ma la paura dei film sulle donne è intrinseca nella cultura cinematografica". E da allora, qualcosa è cambiato, certo, ma non abbastanza. E le donne hanno ancora bisogno di vestirsi di bianco, e dichiarare la loro indipendenza, come nel 1996.

0919 first wives club, beete midler, goldie hawn and diane keaton photo by getty imagespinterest
Getty Images//Getty Images