Bagliori silver, tacchi decorati da cristalli: le estremità decorate da scarpe argento, nel sentire comune, ci hanno sempre riportato con la memoria narrazioni favoleggianti, sogni che si realizzano – o realtà parallele nelle quali è possibile vivere sino allo scoccare della mezzanotte – avventure spaziali e lontanissime, peregrinazioni in luoghi - non luoghi rese possibili proprio dall'indossare loro, più oggetto magico che semplice accessorio. Ed in effetti, erano argentate le famose scarpe che Dorothy si ritrovava ai piedi, all'inizio della sua avventura nel Regno di Oz, regalo casuale e per nulla voluto della Strega dell'Est, sulla quale testa era piombata, nel viaggio temporale che, dall'Arkansas, l'aveva portata in un mondo fatato, ma non meno pericoloso di quello reale. Dotate di poteri magici, sbattendo i tacchi tra loro tre volte, si poteva viaggiare nello spazio, spostandosi da un luogo all'altro, da una dimensione a un'altra. A punta, come certi modelli tipici della tradizione araba, lo scrittore L. Frank Baum, non si sarebbe mai immaginato però che, il suo romanzo del 1900, sarebbe stato trasposto in un film del 1939 entrato nella memoria collettiva, dove il ruolo di Dorothy era affidato ad una giovanissima Judy Garland, e quelle scarpette d'argento, si colorarono inaspettatamente di un rosso glitter. Il motivo? Estetico, sembra. Era di quegli anni l'invenzione del technicolor che portava per la prima volta sul grande schermo i colori saturi e iper-realistici, usato soprattutto per le produzioni musicali, come lo era, appunto, Il mago di Oz: delle scarpe di un rosso acceso avrebbero riempito gli occhi degli spettatori meglio di quanto avrebbero potuto fare, fossero state "solo" argentate.

jack haley 1898   1979 as the tin man, bert lahr 1895   1967 as the cowardly lion, judy garland 1922   1969 as dorothy, ray bolger 1904   1987 as the scarecrow and frank morgan 1890   1949 as the doorman to the emerald city in the wizard of oz, 1939 photo by silver screen collectionhulton archivegetty imagespinterest
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Nella trasposizione cinematografica de Il mago di Oz, del 1939, le scarpe argentate di Dorothy diventarono rosse

In realtà, a voler leggere tra le righe, si scomodarono addirittura degli economisti, come Hugh Rockoff e Henry Littlefield che, scavando nel passato da attivista politico di Baum, appassionato della questione monetaria, intravidero in quelle scarpette un invito alla coniazione illimitata dell'argento, volto a disincentivare la deflazione galoppante del 1800. Una proposta effettivamente avanzata da alcuni politici populisti dell'epoca e che però non si tramutò mai in realtà. Secondo questa interpretazione politica, la strada di mattoni che Dorothy intraprende per arrivare alla città di Smeraldo, rappresenta il sistema aureo, il Gold Standard, mentre Oz altro non sarebbe che la contrazione di "Ounce", oncia, l'unità di misura dell'oro.


Una visione neanche troppo campata in aria, visto che lo stesso Baum, quando la sua opera fu portata a Broadway, ben prima del film, inserì ad hoc, espliciti riferimenti a personaggi politici dell'epoca, compreso il presidente Roosevelt. E forse Hollywood, per evitare di impantanarsi in pericolose polemiche economiche, risolse la questione cambiando il colore di quelle scarpe, e stemperando i probabili dibattiti. Anche perché, a dir la verità, nella memoria delle bambine e delle giovani donne, le scarpe di cristallo, dai bagliori argentati, erano già entrate diversi anni prima con Cenerentola, fiaba originatasi probabilmente in Egitto, e poi tradotta, nei diversi emisferi, in una varietà di versioni, tra le quali quella dei fratelli Grimm e quella del loro contraltare francese Charles Perrault, a cui poi si ispirò Walt Disney per il film animato del 1950. Ricoperte di cristalli che le rendevano brillanti, capaci di attirarsi l'attenzione di un principe durante un ballo, si fanno viatico attraverso il quale la protagonista potrà essere riconosciuta dal suo altolocato spasimante, che di lei ha solo quella traccia. Quando nel 2015 Lily James si è calata nei panni della principessa, nel film live-action firmato dalla regia di Kenneth Branagh, la moda ha pensato bene di onorare il momento realizzando una serie di scarpe ispirate proprio a quel modello, che si può definire a pieno titolo, e con una certa ironia, "favoleggiato". Così Jimmy Choo, Louboutin, Alexandre Birman, Charlotte Olympia, Ferragamo, René Caovilla e Stuart Weitzman, contemporanee fate turchine del reparto accessori, hanno realizzato versioni succedanee ( e desiderabilissime) del modello apparso nel film, concepito dalla costumista da Oscar Sandy Powell insieme a Swarovski, con un tacco vertiginoso di 15 cm in cristallo.

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Jane Fonda nei panni di Barbarella, film del 1968

Le scarpe silver più famose, però, risalgono di certo agli Anni 60, quando l'arrivo dell'uomo sulla Luna ispirò i maggiori couturier a immaginarsi già viaggi spaziali, dotati ovviamente di un guardaroba adatto. Se gli alfieri della Space Age erano indubbiamente quelli della santissima triade modaiola Pierre Cardin, André Courrèges, e Paco Rabanne, le loro emissarie dallo spazio (dirette e non) non potevano che essere donne altrettanto straordinarie. Entrato in ogni dizionario di storia, fu infatti il guardaroba con il quale Jane Fonda si calò nei panni di Barbarella – tutto pensato, appunto, da Paco Rabanne. Nella pellicola di Roger Vadim l'eroina dallo spazio doveva essere futurista e primitiva insieme: così il designer si immaginò body scultorei disegnati sul corpo dell'attrice, corazze inscalfibili e vestiti in maglia metallica, così come cuissardes argentati, poi ricopiati molto più avanti, nel 1997 da un'altra donna pericolosa e bellissima, la Liz Hurley che interpretava l'agente Vanessa Kensington nel primo film di Austin Powers - Il controspione. La diva tutta italiana che però era letale, anche con indosso dei sandali argento tacco 3 cm– silver, ovviamente – è stata però Monica Vitti, che in una delle sue rare apparizioni in film stranieri – quasi sconosciuti in Italia, ma meritevoli di un culto estetico all'estero – si è trasformata nell'agente Modesty Blaise – la bellissima che uccide, trasposizione cinematografica del fumetto dell'inglese Peter O'Donnell. Sguardo enigmatico, sorriso seducente, mano lesta con la pistola e una certa sfacciata leggerezza, connaturata alla mitologia vittiana, l'attrice fu, sorprendentemente una seconda scelta. Inizialmente la parte sarebbe dovuta andare a Barbara Steele, attrice poi divenuta nota per la nicchia degli amanti dell'horror italiano, in coppia con Michael Caine, ma tra una vicissitudine e degli agenti pubblicitari molto scaltri, Monica finì per diventare la mente criminale che si allea con i servizi segreti britannici, e Terrence Stamp divenne il suo collega (nel frattempo Michael Caine, entrando nella leggenda, si era impegnato nel ruolo di Alfie, inizialmente pensato proprio per Stamp). Tra interior dalle geometrie abbacinanti che sarebbero piaciuti a David Lynch, ed esterni fortemente influenzati dalla pop-culture e dalla psichedelia, i vestiti di Monica-Modesty non potevano essere meno massimali: così un cappotto in shantung giallo senape è fornito di un cappuccio rigido che si apre come un fiore, mentre il peplo bianco ottico è adornato da bracciali rigidi al polso, e, appunto, da comodi sandali silver dal tacco minimal con i quali lottare agevolmente con i nemici di turno. Sebbene il film finì candidato alla Palma d'oro al Festival di Cannes del 1966, dove perse contro Un uomo e una donna di Claude Lelouch e Signore e Signori di Pietro Germi, le recensioni non furono entusiaste, e il cast ammise che lavorare con l'attrice non fu certo una passeggiata: forse perché ad accompagnarla sul set c'era un compagno che era un gigante, Michelangelo Antonioni, e che le sussurrava costantemente istruzioni. Quando il regista Joseph Losey – che come tutti i registi, viveva nell'adorazione del maestro italiano della Trilogia dell'incomunicabilità – gli chiese gentilmente di farsi da parte, Antonioni accettò di buon grado di non farsi vedere più sul set, anche se tutte le insicurezze e le ossessioni per le quali la Vitti era nota, e che la rendevano più umana di molte altre sue colleghe anche meno famose, non resero la vita facile al cast. Al netto di ciò, la pellicola ha ispirato legioni di couturier, compresi quelli meno massimalisti che si possono immaginare.

italian actress monica vitti born maria louisa ceciarelli and british actor terence stamp in a scene from the film modesty blaise, directed by joseph losey, 1965 photo by susan woodgetty imagespinterest
Susan Wood/Getty Images//Getty Images
Monica Vitti nei panni di Modesty Blaise, nel film del 1966

E tra le amanti della versatilità – e dello stile, sul set e fuori – della Vitti, c'è sempre stata Miuccia Prada, che in tempi molto più contemporanei, ha traslato quel colore che era divenuto un feticcio di pertinenza del massimalismo spaziale, adattandolo a sling back molto più adatte a camminare sulla terraferma, regalandogli una patente di rispettabilità borghese solo all'apparenza. I sandali con fascetta in contrasto e tacco a banana sono traslazione pradiana in purezza di come si può essere ribelli, in un cortocircuito di attitudine bon chic bon genre e vezzi eccentrici tipici di chi non ha tra le proprie priorità il rispetto dell'etichetta o di codici comportamentali scritti e immaginati da chiunque altro che non sia la proprietaria di quel guardaroba, e di quelle scarpe.

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Matteo Volta//Getty Images
Le slingback Prada silver, della s/s 19

E che le scarpe argento siano quintessenza di una certa libertà, anche economica, lo stabiliva anche Sex and The City, nell'episodio A woman's right to shoes, della sesta stagione, durante il quale a una babyshower, evento inviso ad una donna come Carrie, più appassionata di scarpe e baguette che di neonati e passeggini, scompaiono i suoi sandali Manolo Blahnik, fatti lasciare all'ingresso da una futura madre già troppo preoccupata dai mortali germi trascinati dalle calzature. Quando la proprietaria di casa si offre di ripagare Carrie per il danno, la cifra (485 dollari) dà il via a quello che la riccioluta bionda di Greenwich definisce come un episodio di "shoe-shame". Il rimbrotto paternalista di una donna, con obiettivi e uno stile di vita diverso dal suo, che giudica le sue scelte economiche – e implicitamente, emotive e sentimentali – la portano a pensare che una donna ha il diritto di essere felice, e che quella felicità sia in una famiglia, o in un paio di scarpe argento, non è questione giudicabile come più o meno meritevole da chicchessia, soprattuto da un'altra donna. Le donne hanno diritto alle scarpe. Se sono argento, meglio.

385528 03 actress sarah jessica parker stars as carrie in the hbo comedy series sex and the city the third season  photo by getty imagespinterest
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Sarah Jessica Parker nei panni di Carrie Bradshaw con dei sandali argento