Si tratta di un +14%: è il dato segnato da Lyst, e che certifica un rinnovato interesse degli utenti per gli stivaletti Timberland. Non sufficiente per preoccuparsi, abbastanza per indagare sull'improbabile ritorno del brand fondato da Nathan Swartz, e inizialmente pensato per conquistare le sterminate praterie e le cime dei Monti Appalachi, non certo la giungla urbana delle metropoli. Più che i freddi numeri, però, a far salire i sospetti è la realtà del mercato, e nello specifico quello del mercato fiorente delle merci taroccate: è solo di due giorni fa il sequestro, da parte della finanza di Napoli, di beni contraffatti delle maggiori maison, in una fabbrica abusiva ricavata da un appartamento a Scampia. La notizia, riportata dal Corriere del Mezzogiorno, elenca i nomi delle maison vittime del reato, e che gli indagati intendevano mettere in vendita illegalmente: dei grandi classici del lusso come Chanel, Gucci, McQueen, e dei brand divenuti iconici per lo streetwear, da Nike a Pyrex, ossessione dei più radical tra i luddisti delle felpe con cappuccio. Nel mezzo, gli boot Timberland. Se l'imitazione è la più sincera delle adulazioni, come sosteneva lo scrittore Charles Caleb Colton, certo è che da quest'adulazione si era sicuri di trarne un guadagno. Eppure ci si era erroneamente convinti che lo stivaletto fosse rimasto oggetto di culto solo negli Stati Uniti, dove le celeb lo sfoggiano – a pari merito con l'altro grande ritorno del 2021, gli UGG – per affrontare climi impervi o voli transoceanici. Da Jennifer Lopez a Rihanna, a cui NSS ha dedicato un'intera gallery, elencando tutte le volte nelle quali li ha sfoggiati, non solo fuori servizio, ma anche sul palco, la tradizione è di certo figlia "di secondo letto" della rap culture, che li adottò con un certo entusiasmo già negli anni 90, senza che il brand facesse alcuna mossa pubblicitaria per entrare nelle grazie di Tupac Shakur e Notorious BIG.

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Kamala Harris in California a settembre 2020

Fondato nel 1973, Timberland in realtà nasce nella mente di Nathan Swartz molto prima: padre calzolaio, inizia la sua scalata al successo a Boston, rilevando nel 1952 metà della Abington Shoe Company nel Massachusetts. Di tre anni più tardi è l'acquisizione totale, quando, come ogni buon padre di famiglia, porta i figli in azienda con sé. Artigiani delle scarpe dal piglio pratico, brevettano nel 1965 la tecnologia di stampaggio a iniezione, tecnica che fonde la suola al resto della scarpa, rendendola sostanzialmente impermeabile: il risultato è lo stivaletto che poi gli aprirà la via maestra della fama mondiale, messo per la prima volta sugli scaffali nel 1973. L'American Dream rappresentato dalle scarpe Timberland – insieme ad un'altra serie di feticci brandizzati e made in USA – talmente è desiderato, da apparire quasi in sogno all'unica subcultura che lo Stivale abbia prodotto: quella dei paninari. Giubbotto Moncler, che invece arrivava dalle montagne vicino Grenoble – ma sicuramente veniva buono anche per i Monti Appalachi di sopra – cintura El Charro da sfilarsi in discoteca quando partiva Wild Boys dei Duran Duran, usandola come improbabile lazo da mandriani del Vermont, nella prossemica paninara gli stivaletti Timberland (il work boot dal nome tecnico Style #10061) erano alla base dell'emulazione di uno stile di vita replicato in Italia, con risultati stilistici che venivano condonati solo per via della giovane età di chi li sfoggiava. Non tanto Born to run, come predicava Bruce Springsteen, profeta della working class americana (anche perché all'epoca costavano circa 300 mila lire, non esattamente una cifra popolare), ma sicuramente "born to resist": la durevolezza dello scarponcino era talmente nota che alcuni eroici sperimentatori li mettevano in forno per farli invecchiare prima, e concedergli quell'effetto vissuto, che si sperava avrebbe regalato autorevolezza anche ai loro volti, oltre che alle loro estremità inferiori.

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Un paninaro negli Anni 80 con il piumino Moncler e i boot Timberland

Se già questa deriva dello scarponcino usato dai colletti blu – gli operai edili costretti ai climi freddi del Massachusetts – avrà mandato in apparente crisi d'identità il brand, lo stupore si fece ancora maggiore quando il Sidney figlio di Nathan – dal 1986 proprietario unico della compagnia – scoprì che, a New York, lo sfoggiavano con una certa sicumera spacciatori e traffichini di vario livello. Per quale oscura ragione il boot dalla rudezza perfetta per le realtà rurali dell'America operosa e senza molti grilli per la testa, era divenuto motivo di vanto per i criminali della metropoli? Secondo il giornalista Rob Walker, che ne parla nel suo libro Buying in, la leggenda narra che i primi acquirenti del modello furono proprio gli spacciatori di Brooklyn, che, costretti a peregrinare tutta la notte per assolvere alle loro consegne, avevano bisogno della miglior qualità possibile per tenere i piedi caldi e asciutti negli inverni gelidi della Grande Mela. Per quel fenomeno di emulazione per il quale "lavorare con il favore delle tenebre", possibilmente in maniere poco legali, aumentava esponenzialmente la propria credibilità nel quartiere di pertinenza (un valore a cui solo gli americani potevano concedere una locuzione professionale come "street credibility") iniziarono a indossarli anche i rapper. Un tentativo di assomigliare il più possibile ad una categoria della quale facevano realmente parte nel tempo libero, o alla quale aspiravano di essere paragonati – senza i rischi correlati al mestiere – apparvero ai piedi del Wu Tang Clan, Notorious BIG, Tupac Shakur, Puff Daddy. Una vicinanza non desiderata per il brand, che tentò attivamente di prendere le dovute distanze: negli Anni 90 Jeffrey Swartz, CEO della compagnia, disse al NYT che "se volete comprarci e non siete il nostro consumatore di riferimento, non abbiamo dei punti di distribuzione adatti al vostro lifestyle". Scomparsi momentaneamente dai negozi newyorchesi, la difficoltà nel recuperarli altro non fece che aumentare il desiderio dell'acquisto. Erano in molti a imbarcarsi in viaggi al di fuori dei confini del proprio quartiere, della città, dello stato, per arrivare in New England e acquistarle, trasformando l'esperienza in un pellegrinaggio verso una versione migliorata di se stessi, non tanto nello spirito quanto nel guardaroba. Convinto da quella tenacia, il brand capitolò, abbracciando la comunità hip-hop che poi, in effetti, lo tramutò in un'icona, da cui Rihanna continua a essere ossessionata ancora oggi.

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Rihanna con i boot Timberland

Di recente, riprendendo le sue origini operaie, li ha sfoggiati anche Madame Vice President Kamala Harris, per muoversi agilmente in un sito, tra i tanti, devastato dagli incendi che hanno infuriato sulla California lo scorso anno. Durevoli, affidabili, ruvidi ma pratici: se di certo agli stivali di Timberland non si può rimproverare nulla, dal punto di vista della qualità del prodotto finale, le motivazioni per i quali sono divenuti un feticcio estetico sfoggiato anche dalle sciùre in pelliccia a Gstaad, sono ben più misteriose. Se torneranno ai loro piedi, come ai nostri? Questo è un altro di quei misteri imperscrutabili sui quali, forse, scriveranno (altri) libri.