È che gli italiani hanno sempre avuto un problema con gli “ismi”.

Mi spiego meglio. Se, come voi, avessi ricevuto anche un solo centesimo per ogni “ismo” che ho sentito cadere (ding!) in ogni conversazione della mia vita, saremmo tutti milionari. «Il mio studio è chiaramente il museo della mediocrità, dell’approssimazione, dell’autodidattismo, del velleitarismo, del pressapochismo, dell’orecchiantismo», scriveva Alberto Moravia in Io e lui, dove “lui” era il fallo, simbolo stesso del maschilismo (ding!).

A differenza dei miei colleghi che esaltano tutte le collezioni viste finora, io stavolta qualche perplessità l’avrei. Guardando le sfilate, mi è venuta in mente la frase definitiva pronunciata da mio ex direttore: da noi il problema non è stato Berlusconi in quanto soggetto politico. È stato il berlusconismo, le cui scorie tossiche dureranno per generazioni.

Quindi. Se Gucci diffonde cultura, il guccismo può far danni, e pure gravi. Se Prada è un bene dell’umanità, il pradismo ne è la versione Zyka, non proprio pericolosa, però da starci attenti.Se Moschino (nel senso di Franco) è stato un genio, il moschinismo ne è un’innocente derivazione, deprivata da ogni intento provocatorio, un manifesto del semplicismo (ding!). Se Hedi Slimane è uomo assai intelligente nel grungizzare il grande Yves, il saintlaurentismo è da evitare come Fabrizio Corona pre-galera. L’interazione intellettuale è un beneficio, l’intellettualismo (ding!) forzato, no.

Laddove Gucci e Prada hanno affrontato il tema scottante della contemporaneità usando una loro personalissima metodologia, i loro epigoni ne realizzano una versione indigeribile, buona giusto a essere instagrammata o sottoposta a gif animate. E chiusa lì. La moda di oggi – spiace dirlo, eh – alle Fashion Week di New York, Milano e addirittura Londra, non riesce a esprimere nulla di nuovo in termini di forme, volumi, funzioni. Ci lascia desiderosi di qualcosa che “non” abbiamo già visto con un’ansia simile a quella che ci verrebbe se avessimo smarrito il figlio al Carnevale di Rio.

Alessandro Michele ha compiuto in un solo anno una rivoluzione copernicana che ha contagiato quasi tutti. La sua silhouette filiforme – gonna longuette plissé e pullover, basco e occhiali da vista, giacche strimizite e cappotti oversize, una perenne allure adolescenziale per tutti, maschi e femmine – ha cambiato i connotati ai brand di mezzo mondo (e a quelli del fast-fashion). Il suo linguaggio modernissimo è costruito con lemmi desueti, citazioni letterarie di epoche trascorse, rimandi al passato remixati nel nome di una modernità che, prima ancora che scoprissero la realtà delle onde gravitazionali, è legata a una dimensione del tempo non rettilinea, ma circolare. Oggetti, abiti e gesti di oggi, di ieri o dell’altro ieri sono disposti come su un vinile su un giradischi (do you remember?). Per il prossimo inverno ha alzato il tiro, convocando in una sfilata la disco anni 80 e il Rinascimento, Sylvano Bussotti e Cristina D’Avena, Caterina de' Medici e Caterina Caselli. Il citazionismo (ding!) è una pratica da coltivare con attenzione e cura e Michele possiede la cultura e la visionarietà per mettere insieme maniche da corsetto elisabettiano con zeppe da Studio 54, lo street artist Trouble Andrew “sfregiatore spray” di borse e giubbotti da campus con gli abiti da principessa delle fiabe. Il suo progetto è nato con lo statuto di far coesistere elementi antitetici, perfino contrapposti ma già esistenti, che nell’essere costretti a un (im)possibile dialogo, risorgono a nuova vita. In questa stagione avremmo preferito uno styling meno barocco: cappelli con la veletta sugli occhiali giganteschi, pelliccia su vestaglie orientali su camicie ricamate su t-shirt con logo su gonnellone arcobaleno, su calze colorate, su scarpe variopinte. Come gioielli: tirapugni di perle, bracciali connessi agli anelli, orecchini vistosi, collane di perle cucite negli abiti. Tutto questo tutto insieme. Una dissonanza di segni che seguono il metodo artistico dell’appropriazione, rubando abiti, dettagli e accessori in ogni dove e in ogni periodo. Il punto è: lui lo sa fare. Quando viene a sua volta appropriato (ehi, qualcuno ha detto «copiato»?) è il trionfo del decorativismo (ding!) fine a se stesso, dell’esuberanza irragionevole, dell’accumulo impazzito, del vintage come extrema ratio per titillare la clientela globale in un insensato samba. E ci fa sognare come un’utopia una nuova camicia bianca, una nuova giacca blu, un nuovo paio di pantaloni neri che si possano mettere in ufficio e siano, nello stesso tempo, non esempi di conservatorismo (ding!).

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Prada Autunno Inverno 2016/2017

Analogamente, Miuccia Prada ha da sempre agguantato i concetti di “classico” o “borghese” e li ha strapazzati, presi in giro, ricostruiti con un’ironia che solo chi li conosce bene può permettersi di esercitare, perfino di guadagnarci sopra. Fa piacere che nella nota di sfilata abbia usato la stessa parola, “inventario”, cui si era pensato per la meravigliosa collezione uomo. Questa volta è il turno di una femmibilità da ri-creare con giacche da marinaio, calze fantasia, gonne di stampati diversi sovrapposti, corsetti da fantesca ottocentesca su giacche maschili, chiavi di casa al collo nella parte di gioiello-feticcio e tasche, tasche, tasche come inaspettato focus corporeo. Si tratta di una femminilità rimessa insieme come un meraviglioso, emozionale Frankenstein: c’è il nero dei momenti bui, l’oro dell’opulenza umorale, le età della vita dipinte con i nomi dei mesi durante la Rivoluzione Francese, “Germinal”, “Thermidor”, “Fructidor” (dell’artista Christophe Chemin), la sensualità degli stivali da feticista efferato o dei sandali da ragazza molto, molto facile che aspetta i soldati a Pearl Harbor. Anche qui, il dialogo con l’oggi si confronta non solo con diverse fasi temporali, ma con discordi fasi emotive della personalità di una donna.

Chi la “cita” (e ne abbiamo viste tanti, in questi giorni), si rivela fragile e inconsistente, convinto che andando in un mercatino delle pulci si possa convincere gli altri di celebrare l’attualità, con la Storia che pesca a caso i vestiti che hanno dato forma al suo fluire.

Non so, forse essere vecchi inizia quando vorresti mettere alla pistola nel vedere l’ennesima “ispirazione” anni 70 – che poi, qualcuno avrà il coraggio mai dirlo? È stato il decennio più orrendo di tutto il Novecento, in termini di abiti e buon gusto, tranne Yves Saint Laurent, Valentino e pochi altri grandi – e desiderare di vedere una cosa che prima non c’era. Sono vecchio? Forse. La verità è che, nel cercare di accaparrarsi consumatori da ogni luogo e da ogni social network, la velocità è tale da non permettere che un oggetto prima abbia dietro un progetto. Quindi è più comodo abbagliare e abbigliare con strati di cose recuperate dall’armadio della zia zitella, dalla mamma, dalla nonna squinternata o da qualsiasi parente picchiatella che abbia lasciato un’eredità di vestiti e gioielli, per poi accatastarli su una modella. È così che possono prendere il volo una borsetta, un paio di scarpe, delle calze, dei bijoux: “tessere" dei puzzle per i megafatturati. Ma che prenda il volo un’idea dirompente, di quelle che ti fanno fare «Oooohhh….», non succede neanche per sbaglio: troppo azzardato, troppo rischioso. Con le dovute eccezioni, certo: vedi quattro designer lontani per età e formazione, ma che stupiscono ogni volta: Karl Lagerfeld, J. W. Anderson, Raf Simons fuori da Dior, e ora vedremo Demna Gvasalia da Balenciaga.

Che la moda sia sensazionalismo (ding!), va benissimo. Che sia occasionalismo (ding! Esiste, esiste come parola), proprio no. Ma no.

Ding! Ding! Ding! Ding! Ding!