L’editor del nostro sito mi fa notare, non senza una certa malizia, quanto oggi i cosiddetti “intellettuali” sono particolarmente modaioli e ci si è come improvvisamente resi conto che chi disegna moda – ohibò – può anche avere un cervello che pensa, oltre che a fare bei vestiti, anche ad altre tematiche (tanto, per alcuni politici sia gli uni, sia gli altri sono sistematizzati sotto la categoria “radical chic” e dunque da condannare sulla pubblica piazza, ma tant’è: sono i doni del suffragio universale). Del resto: soprattutto nel campo dell’arte e dell’architettura, sono sempre più gli autori che si fanno riconoscere per il loro modo di vestire: Jeff Koons ormai appare in pubblico abbigliato come Trump perché è ricco come Trump; Marina Abramovic ormai ha connesso il suo corpo alla matita di Riccardo Tisci, come Jean Nouvel crediamo dorma con un giubbotto in pelle nera che porta sempre, anche d’estate a 40 gradi o a gennaio con -18. Talvolta sono le griffe a rendere il favore e le due sfilate fiorentini di Pitti Immagine Uomo 96, al termine di una sfolgorante edizione che sta facendo venire il mal di pancia alla Fashion week milanese, ridotta a 72 ore scarse, lo reiterano e le confermano. Massimo Giorgetti, fondatore e anima penante e creativa di MSGM, festeggia i dieci anni del suo marchio con una sfilata che è soavemente politica, dolcemente sovversiva, delicatamente contestataria. A cominciare dal luogo, il Nelson Mandela Forum, il palazzetto dello sport della città, dove la passerella riproduce con i led una piscina in cui immerge i suoi modelli, di varie etnie e nazionalità, in un festival di colori da estate al mare da vacanza perenne, da playboy sempre – letteralmente – sulla cresta dell’onda fino a far uscire i suoi ragazzi i costume da bagno e camicia completamente zuppi, come se si fossero buttati in piscina vestiti o avessero invece appena partecipato al concorso Mr. Camicetta Bagnata. Ma i motivi gioiosi, allegri, pirotecnici, dipingono immagini di volti maschili, di corpi di ragazzi svestiti sulla spiaggia e abbronzati dal desiderio, in un manifesto sul potere della gioventù e della carnalità come “estati d’animo” (è il nome della collezione) che vanno contro il sistema e vogliono ristabilirne le regole. Li ha disegnati l’artista berlinese Norbert Bisky, rappresentante del Nuovo Realismo della postmodernità, dall’estetica gay e molto politicizzata, dove protagonisti sono “boys” che si amano in colori lisergici (e sì, a sfilare c’è anche Leonardo Tano, figlio 19enne di Rocco Siffredi, fotografato con entusiasmo dal papà che indossa una t-shirt con stampato “Turbo”). La sessualità come chiave per scardinare l’ordine precostituito si riverbera perfino nella parte sartoriale, dove blazer decorati da quegli scarabocchi che uno fa sotto l’ombrellone sono indossati rigorosamente sugli shorts, e hanno – non sempre – una maglietta sotto con la scritta “Non toglieranno mai l’estate che è dentro di me”. Giorgetti non è più il cantore dello streetstyle e basta: appare molto più cosciente delle sue capacità e ha maturità una fine conoscenza del suo pubblico di riferimento, che coincide con i Milllennial de facto e de core, per dirla alla romana. Gli accessori, bellissimi, provengono dalla sua collaborazione con Fila, con borse, marsupi, costumi da bagno e cappellini, mentre continua la sua partnership con le scarpe Sebago. Così, quella che sembra – ed è – una collezione divertente, gioiosa e soprattutto vendibilissima, diventa un veicolo di comunicazione ad alta concentrazione di disubbidienza.

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MSGM Courtesy

Mentre la città aggiunge il parossismo dell’immobilità tra pullman di turisti, torpedoni di modelle degli anni 80 e 90 radunate da Andrea Panconesi per lo show internazional-popolare che celebra i 90 anni della leggendaria boutique “Luisa Via Roma”, con la regia di una sempre più sulfurea e sorniona e felina Carine Roitfeld, i fedelissimi dello stile accorrono al debutto di Sterling Ruby con la sua linea, dal nome assai complicato, S.R. Studio. LA. CA. Chi ha visto il bellissimo documentario “Dior and I” sul tormentato processo creativo di Raf Simons alla guida della maison francese ora diretta da Maria Grazia Chiuri, ricorderà una scena da brivido: quando il designer belga, affascinato dai quadri astratti di Sterling Ruby, decide di stamparne uno su un tessuto per la sfilata che ci sarà due giorni dopo, a multipli colori, realizzato in Italia. La spasmodica lotta contro il tempo termina a pochi minuti dall’inizio del défilé, quando il tessuto, arrivato poche ore prima, viene drappeggiato sul corpo della modella. Questo significa quanto per Simons, questo artista poliedrico - dipinge, scolpisce, plasma ceramiche - sia fondamentale come figura di riferimento, amico, complice, musa. Nato in Pennsylvania e ora losangelino, Ruby è un ex Amish, un ex bambino difficile di quelli «che non sono mai invitati a giocare con gli altri», un ex ragazzo interrotto che ora espone al Museum of Modern art di New York, al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, la Tate Modern di Londra, il Centre Georges Pompidou di Parigi e il Moderna Museet di Stoccolma. L’amore della sua vita? Una vecchia macchina da cucire Singer, che ha imparato a usare da piccolo per i “quilt”, le coperte intarsiate americane, che sono un suo motivo ricorrente (e lo sono state anche di Raf Simons nella sua sventurata avventura americana come direttore creativo di Calvin Klein).

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Sterling Ruby Courtesy

Nel 2008, per la prima volta, il creativo ha disegnato un’uniforme basica da lavoro costruita a partire dai residui di lavorazioni tessili. Da quel momento, ha realizzato in modo rituale capi permeati dagli stessi trattamenti e strategie delle sue opere d’arte: abiti come arazzi da appendere al corpo, senza taglie né costrizioni, completamente artigianali, prodotte in serie limitata o addirittura in un’unica copia. Sculture soffici destinate a rivestire cervelli, più che anatomie, e quindi oltre il genderless, oltre la divisione uomo/donna. «Sterling Ruby è anche uno dei protagonisti di quella forte e creativa scena artistica di Los Angeles che si muove tuttora tra la spinta a una sperimentazione libera dai doveri del successo e della competizione e l’adesione ai modelli industriali di cinema, musica, spettacolo e moda», dice Lapo Cianchi, direttore comunicazione & eventi di Pitti Immagine. Una sfilata? Sicuro. Un evento culturale? Sicurissimo. Un’operazione commerciale? Perché no. Quello di cui siamo certi è che c’è bisogno di menti come la sua per fare avanti un’industria che oggi – malgrado il parere molto aspro di alcuni miei colleghi, che accusano la manifestazione fiorentina di non dare abbastanza spazio ai nomi nazionali – ha bisogno di artisti proprio per vendere di più. E per significare ancora il senso del vestirsi senza ridurlo a una mera operazione di fatturati, ricavi e budget. Anche perché i consumatori che dovremo sedurre abitano quello che chiamiamo “mondo”. Un mondo dove l’arte del vestire sta scomparendo e ha bisogno di nuove voci, di nuovi punti di vista. Possono solo arricchirci, non impoverirci. Tanto, forse, poveri lo stiamo diventando quasi tutti, a leggere i quotidiani. E allora concediamoci l’unico lusso possibile: avere accanto e addosso persone e cose, abiti compresi, intelligenti e autentici.

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