Al terzo giorno di sfilate milanesi, l'elefante è ancora lì. Quale elefante? Quello nella stanza, ovvero, il problema che, per quanto banale e appariscente, si finge di non vedere. E cioè: siccome la parola du jour è “sostenibilità” e tutti i creativi insieme con gli uomini della finanza si affannano a esporre tessuti riciclati, dichiarano prossimi controlli severissimi di ogni passo della supply chain (ovvero la catena che dal produttore porta al consumatore), propagano occhiute gestioni che nessun minorenne venga utilizzato per confezionare capi di grande lusso e di altissimo prezzo, espongono piani di gestione di recupero, promettono di tornare a capi long lasting (di così elevata qualità da potesse essere riutilizzati per anni), giurano volontà ferrea nello studio del riutilizzo, riciclo e ri-uso nel campo dell'abbigliamento, ancor oggi è al secondo posto nel settore delle industrie più inquinanti del pianeta, sorge il domandone-elefante: non è che per fare più felice pianeta, a cui non piacciamo più e si sta vendicando, basterebbe consumare meno?

Ogni anno 93 miliardi di metri cubi di acqua sono usati per la produzione tessile; il 20% dell'inquinamento globale delle acque dolci proviene da trattamenti tessili e di tintura; ogni anno sono prodotti 100 miliardi di capi mentre il 35% del totale dei materiali immessi finisce per diventare scarto, producendo 92 milioni di tonnellate di rifiuti corrispondenti al 4% dei rifiuti solidi globali. Sono dati che abbiamo tratto da New AwarenessUna Nuova Consapevolezza, iniziative organizzata da Sara Sozzani Maino a Corso Como 10, che con una serie di impegni ed eventi intende mostrare come la moda possa diventare realmente più sostenibile e non solo “meno insostenibile”, che nasce per coinvolgere università, media, organizzazioni non governative e società civile, per aiutare ad accelerare la trasformazione verso la sostenibilità. Ma l'elefante resta, e non barrisce.

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Uno scatto da New Awareness di Sara Sozzani Maino

Ci permettiamo allora di formulare una “modesta proposta” alla Jonathan Swift, che nel 1729 firmò un pamphlet proprio con questo titolo, in cui si consigliava di rimediare alla sovrappopolazione dei cattolici irlandesi mangiandone i bambini o vendendoli al mercato della carne. Senza arrivare a così crude conclusioni, non è che si potrebbe arrivare a una moratoria della creatività da indossare, almeno per un annetto? Gli stilisti prenderebbero fiato, le maison continuerebbero a vendere quello che realmente vendono (scarpe e profumi e occhiali da sole). Lo diciamo senza mancare di rispetto a nessuno, beninteso: il punto è che sia a New York, sia a Londra, sia (purtroppo) a Milano, non si sono viste collezioni eclatanti, non ci sono state sfilate degne di meraviglia, non abbiamo assistito a eventi memorabili, di quelli da raccontare ai nipoti dicendo: «Zio c'era». Ci sono abiti interessanti, senza dubbio confezionati impeccabilmente, prodotti ottimi per un pubblico ottimo, di gusto eccelso ma senza alcun tipo di azzardo, di rischio, di audacia. Senza arrivare alla banalità di New York, a Milano si fa moda come il sesso protetto: sicura. Il che sicuramente evita brutti contagi, e va bene.

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Un look dalla sfilata di Jil Sander SS20

C'è un'estetica del già visto, del già sentito, del già noto che spesso sfocia addirittura nell'autocitazione: perfino nelle sfilate più interessanti viste finora, quelle di Prada, di Fendi nell'era post-lagerfeldiana, di Jil Sander, c'erano evidenti richiami a un passato che fa parte del DNA del marchio, ma non uno sguardo rivolto al futuro. Alla fine della fiera, come si dice a Milano, dopo l'ubriacatura dello streetstyle a base di tute, sneakers e felpe con il cappuccio, si ritorna sempre lì, all'eleganza minimale, là dove lo stile ha la meglio sulla moda, come ha sottolineato la signora Prada. Che, nella sua collezione, ha voluto, come uscita iniziale, una sua tipica mise dei primi anni 2000 indossata dalla più azzeccata testimonial di allora, Freja Beha Erichsen. Un autoriferimento unita poi a suggestioni pradesche che, nel corso del tempo avevano visitato i Venti e i Settanta. Decenni che, a ben pensare, sono stati nuvolosi economicamente e culturalmente e che, spezzettati, frullati e ricomposti su una passerella dove piastrelle da bagno formavano decori in stile Art Déco, rimandavano a una realtà dove forse è meglio fermarsi, riflettere e pensare di cosa si ha veramente non bisogno, ma desiderio. ««Sono partita da quella che mi sembra la sensazione del momento: il troppo di tutto. Ovvero dall’invito, che ci arriva da più parti, a non produrre e a non consumare. Ho lavorato per sottrazione, facendo anche una certa fatica. Ho cercato di fare meno», dichiara la stilista. E qualcosa vorrà dire.

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Paolo Lanzi//LAUNCHMETRICS SPOTLIGHT
Un look dalla sfilata di Prada SS20

Opera nel segno della continuità anche Fendi, con alcuni dettagli – i colli a punta, le doppie abbottonature, gli “scherzi” della pelliccia stampata a quadretti Vichy – che invece, nell'assenza-presenza di Karl, si sforza di smussare certe rigidezze, certe imbustature, certi angoli retti tanto amati dal Kaiser del design vestimentario e restituisce l'immagine di una donna sorridente, ottimista, quasi vezzosa nei tailleur fiorati realizzati in quello che sembra il “riscaldino” l'imbottitura trapuntata di certe giacche invernali, che dona morbidezza e festeggia i colori da giardino primaverile, ma che non ha forse presente quante calde siano le estati di Greta, infuocate da temperature bollenti: una collezione riuscita, molto attenta alla nuova Generazione Z di cinesi e orientali in generale sempre più numerosi e vestiti dalla testa ai piedi con articoli dal costo proibitivo e con il logo in bella mostra, che con coraggio Fendi non ha esibito.

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Un look dalla sfilata di Fendi SS20

Insomma, si nasce piromani e si finisce pompieri: se anche designer molto attenti alle esigenze dei giovani e dei giovanissimi plutocrati come Alessandro Dell'Acqua e Peter Pilotto – che si è trasferito da Londra a Milano – hanno elaborato un concetto tutto sommato più che collaudato, con ricami preziosi e luccicanti, con un senso del vestire che riporta l'eleganza dentro binari più consueti, che mandano in pensione quelle vestite in tutone informi come Billie Eilish e privilegiano l'eleganza anche un po' androgina di Lana Del Rey.

Quello che appare evidente che la categoria “chic minimalista” sta risalendo le classifiche delle maison di tutto il mondo: il punto è che bisogna saperlo fare molto bene, altrimenti si rischia di diventare noiosi. Ci riescono benissimo Luke and Lucie Meier per Jil Sander, che evitano ogni effetto asettico e privo di emozioni come un collutorio, ma attraverso l'uso sapiente di applicazioni in rafia movimentano l'architettura perfetta di abiti e cappotti (mai viste sfilate estive così caste e al caldo), Arthur Arbesser che del concetto di “compilation” ne fa una tutta sua, con gli scampoli di oltre vent'anni di tessuti già usati in altre sue collezioni e Giorgio Armani, che per Emporio tesse superfici baluginanti per abitini a trapezio come esposti alla luce della luna.

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Un look dalla sfilata di Emporio Armani SS20

La rivincita del gusto borghese o un antidoto contro il dilagare di un vestire sportivo che ha stancato veramente tutti? C'è, nell'aria, quella stanchezza languorosa un po' vaga e inutile, brillante, sicuramente snob, segnatamente svogliata, ma ambizioso, poliglotta e soprattutto fiducioso nel futuro. E, contemporaneamente, si sente la necessità di tornare a fare un tipo di abbigliamento che sia la conseguenza ultima di una lunga ricerca, e non la riproposizione tal quale di un abito d'archivio.

“Archivio”, del resto, è un'altra delle parole-chiave che in questi giorni sta girando come un mantra, e si capisce perché si scivoli progressivamente verso il classico, sia pure ripulito, rivisitato nelle proporzioni, depredato da ogni decorazione. Non è understatement, è solidità e senso di protezione da un mondo che, di protezione, sembra offrirne sempre meno. Sono sfilate che esprimono benessere e serenità, anche e soprattutto economici, proprio nel momento in cui stiamo rischiando di diventare tutti proletari.