La moda, si sa, è specchio dei tempi. E se, nello specifico in Italia, questo periodo è un importante momento di passaggio storico, le passerelle della Milano Fashion Week dedicate alle tendenze Primavera Estate 2020 riflettono questa sensazione di languida indulgenza, di incertezza, che si veste di rigoroso cipiglio, nell'incertezza sul domani. E in effetti, se da una parte si assiste ad un passaggio di consegne (Fendi è alla sua prima sfilata di prêt à porter senza Karl Lagerfeld) c'è chi, storicamente noto per la sua capacità di decifrare il presente, e a volte anche il futuro, come Prada, preferisce rifugiarsi nelle certezze stilistiche di Anni 50 e 70. Dall'altra parte, i giovani talenti – che non mancano, da Calcaterra a Brognano passando per Act N°1, sostenuto infatti dalla Camera della Moda – sgomitano e sudano molto più di come era successo alla generazione precedente, per ottenere il riconoscimento di un valore indubbio.

Da Prada, Miuccia manda in scena pantaloni in lana over e blazer dai volumi studiati ad hoc per il “back to business”, abiti da cocktail scivolati con felci stilizzate sui fianchi che sembrano usciti da La notte di Michelangelo Antonioni – racconto di una festa dell'high society romana dove un Mastroianni incastrato in un matrimonio e in una relazione in fase di stallo, incrocia una giovanissima Monica Vitti, figlia del proprietario di casa, giovane ma già incline alla riflessività, in un inedito caschetto nero. Le bluse a balze con fasce in glitter e i cappotti grafici in frizzanti arancioni faranno sicuramente la gioia delle amanti del marchio: tutto in linea con l'estetica Prada, che però è anche notoriamente apprezzata per quella sua capacità di “disturbare”, inserirsi nei canoni stilistici che incapsulano lo spirito dei tempi, quello che gli esperti chiamano “Zeitgeist”, e smuoverli, modificarli, in maniera impercettibile ma che scava a fondo, un po' come se in una sinfonia tecnicamente perfetta risuonasse una nota solo apparentemente stonata, che, a furia di risentire, porta la nostra mente su altri, e più profondi registri musicali, scavando in memorie sepolte, in arrivo direttamente dal futuro prossimo, più che dal passato. Un approccio definito forse semplicisticamente “estetica del brutto” – come se tutto ciò che non si uniforma di default ai canoni vigenti, allo status quo, non meritasse la dicitura di “bello” – e di cui in questa sfilata ci sono poche tracce. La conferma di una certo ritorno al proprio passato è invece in una delle donne che solcano la passerella: ad aprire la sfilata, lob piatto e lucente, cipiglio concettuale, maglione a costine con collo a punta, gonna bianca in una pauperista tela di cotone ruvido, c'è Freja Beha Erichsen, modella che dai primi anni Duemila ha simboleggiato, con il suo corpo asciutto e il viso spigoloso, l'approccio al guardaroba di Miuccia.

Certo, esporre i propri feticci estetici per sottolineare, con un evidenziatore indelebile, i profili della propria identità è un' “operazione nostalgia” dal sicuro successo – basti pensare all'eco mediatico che ha ottenuto, qualche stagione fa, da Versace, l'uscita finale in passerella di Cindy, Naomi and Co., le prime e verissime top model, oggi belle quanto ieri – ma dalla moda, come dal governo, non ci si aspetta celebrazioni di gloriosi passati, da lasciare alle timeline di Facebook, ma proposte concrete sul futuro, ognuno nei propri campi di pertinenza.

Da Jil Sander, colonna portante di un minimalismo mai così di moda, la coppia creativa di Lucie e Luke Meier immette nel Dna del brand motivi stampati (e molto colorati) che guardano alla psichedelia dei Sixties o alla secessione viennese del 1900, ma i pezzi più riusciti sono quelli che giocano, e sfilacciano – grazie alle frange – l'identità del brand, vestiti ricamati con cappe ad hoc, blazer che si arricchiscono di maxi ricami, preziosi nella loro artigianalità, come medaglie al valore, testimoni di un'eredità estetica dalla quale in molti continuano ad attingere, e che il brand cerca, giustamente, di reclamare. Da Fendi, dopo Karl Lagerfeld, Silvia Venturini Fendi si avventura in solitaria: il risultato è un successo, con shorts a vita alta matelassé senape e maglioncini check con scollo a V, che brillano di luce e di riferimenti ai Seventies migliori, tanto che non si fa fatica a immaginarli indosso ad epigoni di Annie Hall, donna “nuova” nella mitologia cinematografica di Woody Allen. Si prospetta un cambio di passo, anche se portandosi dietro il bagaglio preziosissimo di 54 anni di collaborazione con il Kaiser della Moda. Dall'altra parte della barricata, a contendersi le attenzioni di fashion editor alle prese con un calendario nel quale si tende, un po' per praticità un po' per pigrizia, a prediligere i big, c'è la new wave. Act n°1, il brand fondato in Italia da Galib Gassanoff e Luca Lin, fa sfilare le modelle su uno specchio d'acqua riflettente, a veicolare il concetto della doppia personalità creativa che partorisce capi ibridi, felpe con cappuccio da indossare con abiti sognanti in georgette di seta, camicie molto europee con maniche da kimono, vestiti in seta scivolata in rosa antico indossati sopra le t-shirt. Il risultato è contemporaneo e desiderabile, così come quello della donna di Marco Rambaldi, che insieme a Act n°1 è sostenuto dalla Camera della Moda, dove la maglieria a costine e stampe da bric-à-brac, ossessione stilistica di Rambaldi, si fondono con maxi camicie che arrivano lunghe fino alla caviglia, e che sottolineano elegantemente la silhouette con la coulisse in vita. Un brand, quello di Rambaldi, totalmente autoprodotto e che riuscirà tra qualche mese ad allestire online il suo e-shop, sperando che la vetrina mondiale di Internet possa regalargli il palcoscenico internazionale che merita.

A conquistare la platea è stata anche la collezione di Calcaterra, fondata dal milanese Daniele Calcaterra nel 2014: lontana l'idea eighties semplicistica delle “donne forti”solo se indossano tailleur come armature, l'idea è iniettare nel guardaroba di lei una personalità assertiva, che prende spunto dal maschile, senza che venga meno l'eleganza, e la morbidezza delle forme. Un guardaroba purista, total white, fatto di linee che fluttuano su giacche kimono arricchite da piume, pantaloni palazzo illuminati dai glitter sotto giacche dalle spalle importanti, vestiti che sembrano chiusi dal fiocco sullo scollo, e scendono con una certa disinvoltura fino a terra, insieme a trench in vinile total black che guardano agli Anni 70 di Catherine Deneuve in versione Belle du jour. Progetti agli inizi – solo apparenti, perchè essere riusciti a concepire un'intera collezione e avere una rete commerciale che ne sostenga la visione, è cosa che riesce solo a pochissimi giovani – eppure desiderosi, e meritevoli di essere presi sul serio, e magari di vedersi fornire delle opportunità di visibilità maggiori.

La quadratura del cerchio è infatti riuscita ad un giovane a cui è capitato – chissà per quale allineamento astrale, in un sistema nel quale i grandi gruppi del lusso preferiscono sempre farsi affiancare e guidare, da una personalità dotata di una certa gravitas stilistica, e da una lunga esperienza, che dovrebbe, nella loro visione, garantirne il successo – il compito di riscrivere l'identità di una maison guidata negli scorsi 17 anni da un nome come quello di Tomas Maier: Daniel Lee da Bottega Veneta, allievo prediletto alla scuola di Phoebe Philo nell'era di Celine, ha infatti giocato con i codici del brand maestro nell'arte dell'intrecciato, tirandone fuori monospalla dalle silhouette atletiche, eppure raffinate, total look in denim morbido, jumpsuit in pelle caramello con scolli geometrici e coulisse in vita già entrate nei desiderata di vecchie e nuove clienti, spolverini da appoggiare sulle spalle, con vestiti dagli scolli seducenti e borse matelassé in verde smeraldo. Interrogato in merito al delicato lavoro da equilibrista che sta compiendo, per riportare il brand al centro delle attenzioni, e fuori dai negozi – spoiler: ci sta riuscendo – ha confessato al Guardian “Voglio solidificare l'identità di questa maison, e i motivi per i quali è conosciuta e amata, ma trasporla in un guardaroba che sia radicato nella realtà di oggi. Non vedo l'utilità di creare degli abiti che non abbiano una storia da raccontare, un'opinione, condivisibile o meno. Si potrà poi odiarla o amarla, ma voglio essere coraggioso, altrimenti, che senso ha?”

Già, che senso ha?