A scorrere la mail lavorativa, per chi, come scrive, lavora nell'editoria di moda, non ci vuole molto per ritrovare le principali keyword che appaiono nei comunicati stampa di uffici alla disperata ricerca di idee: oltre alla sempre valida locuzione "in equilibrio tra eleganza classica e trend contemporanei" o tutte le sue varianti, c'è però un'altra parola che ritorna spesso, spessissimo, e sembra divenuto un mantra religioso negli uffici stile dei marchi. Quella della co-lab. In barba a chi crede che la moda sia un settore competitivo, le co-lab sono qui per mostrarvi che vi sbagliate: tutti collaborano con tutti, tutti "apprezzano da sempre l'estetica di XX", altri "era da tanto che sognavo di poter lavorare con XY". Il fenomeno delle collaborazioni – inteso come un brand che si appropria di codici estetici o di specifici prodotti (che sono mai niente meno che "iconici") di un altro e li rivisita secondo la sua visione – è però da sempre esistito, ma viveva principalmente nell'universo sportivo, e si esplicitava nella forma di prodotti realizzati in esclusiva per questo o quell'atleta, da usare sul campo, e poi, vendere anche nei propri store. In questo modo, ad esempio, sono nate le Air Jordan di Nike, pensate per il cestista Michael Jordan già nel 1985, in rosso e nero. Colori difformi dalle regole della NBA, la National Basketball Association, l'iconico – lui, con tutte le ragioni – sportivo pagava, ogni volta che le indossava, una multa di 5,000 dollari, senza fare un plissé, alimentando la leggenda intorno alle calzature. La loro ultima versione, la AJ XXXIV, negli store da settembre, fornita di tutte le migliorie tecniche del caso, leggerezza e tecnologia Zoom Air incluse, sembra promettere di poterti innalzare in aria mentre con nonchalance si agevola un canestro.

instagramView full post on Instagram

Se era comprensibile e logico il perimetro entro il quale si muovevano queste strategie – creare un prodotto con caratteristiche tecniche precise/abbinarlo ad uno sportivo di fama/immetterle sul mercato – pare meno chiara la deriva attuale. Lontano dai campi da gioco, in un universo contemporaneo sempre più simile ad una puntata di Black Mirror nel quale la necessità di acquistare è direttamente proporzionale non ad uno specifico bisogno dell'armadio, ma al grado di esclusività che questa o quella collaborazione sembrano promettere, la grande assente è la misura. L'eccesso però si è raggiunto già in America, con co-lab che sono diventate più simile ai lavori di gruppo del liceo, che ad un virtuoso passo a due. Proprio Nike ha di recente lanciato la sua nuova LeBron – un'altra sneaker abbinata già di per sé ad un altro famoso cestista, LeBron James – facendola disegnare al brand di menswear John Elliott. Il risultato sembra, a livello di onomastica, un equazione di terzo grado: Nike x LeBron x John Elliott. Stessa storia per Converse, che, in occasione dei 90 anni di Mickey Mouse ha realizzato una versione ad hoc della sua Chuck Taylor, in esclusiva per Kith, catena americana di sneaker. Il risultato è stata la Kith x Disney x Converse Chuck 70.


In Italia non siamo ancora arrivati al threesome della collaborazione, ma ogni occasione è buona per sigillare un nuovo accordo a due: in occasione di Art Basel Miami, Valentino ha presentato una co-lab con l'artista americano Emilio Villalba, che ha dipinto a mano 10 borse del brand; per dicembre il sito di prodotti beauty Abiby realizzerà una box di articoli pensati per affrontare il freddo, con grafiche realizzate da Colmar, al cui interno ci sarà uno sconto del 10% per acquistare un capo del marchio (nei negozi del brand di abbigliamento, invece, il box andrà in omaggio a chi acquisterà capi della linea sci); approfittando sempre dell'Art basel invece, Palm Angels collaborerà con l'hotel The Setai, con una felpa, una t-shirt, un cappello e una tote-bag che saranno omaggiate a chi soggiornerà nella struttura di Miami; sembra quasi superfluo menzionare la già molto annunciata co-lab tra Adidas e Prada, o le infinite iterazioni delle collaborazioni di H&M (dopo Giambattista Valli, la prossima sarà con la designer colombiana Johanna Ortiz, che realizzerà abiti da giorno e da sera in stampe floreali).

In molti di questi casi, gli obiettivi sono molteplici: nel caso di due brand diversi (una maison e un brand streetwear) si può facilmente immaginare come il desiderio di entrambi sia arrivare ad un pubblico, quello del proprio compagno di squadra, al quale di solito non si riesce a comunicare. Per le case di moda più blasonate, invece, l'operazione desiderata è quella di costruirsi, attraverso il binomio con un marchio più street, una credibilità, e legittimarsi così di fronte ad una nicchia di appassionati che hanno la possibilità di spendere – le sneakers vintage o rare si acquistano oggi a prezzi da capogiro – ma che hanno un senso dello stile dogmatico, che non accetta o conosce brand al di fuori del proprio perimetro di appartenenza. In ogni caso il risultato è gonfiare i prezzi di articoli che, senza quella x nel mezzo, sarebbero rimasti abbordabili, ma avrebbero difettato di esclusività. Una strategia che funziona? Forse. Gli amanti – o, in questo caso, meglio dire adepti – di Supreme, brand dedicato agli skater fondato da James Jebbia nel 1994, il cui logo bianco su sfondo rosso nel font Futura è ispirato ai lavori più politicizzati dell'artista Barbara Kruger, considerano il brand un culto al quale votarsi.

I suoi skateboard si sono arricchiti dei lavori di artisti Jeff Koons e Takashi Murakami, o anche registi come Harmony Korine, artisti tutto sommato in linea con quel concetto, ed estetica ultra-pop. Su tutto quello che gravita intorno, però, dalla linea di abbigliamento agli accessori, la pervasività delle co-lab è stata impressionante: da Lacoste a Rimowa passando per Playboy e Comme des Garçons, da Champion a Stone Island. Tutti si sono inchinati al cospetto di una potenza indiscussa nel mondo dello streetwear, offrendo umilmente in dono una co-lab, persino, di recente, Louis Vuitton. Il risultato? In termine di vendite, è un successo, con le file fuori dagli store che si ingrossano dalla notte prima del lancio, e una fascinazione divenuta mainstream, della quale cadono vittime non solo gli skater ma anche fette della popolazione che non ne hanno mai imbracciato uno, né intendono farlo – come il rapper italiano Fedez, che su Instagram ha fatto sfoggio della sua intera collezione in co-lab con Louis Vuitton. I compratori della prima ora però, guardano a queste operazioni di marketing senza celare il disprezzo, e si tengono ben stretti skate e felpe col cappuccio realizzati quando l'estetica del marchio non veniva "diluita"da intrusioni esterne, e ben poco in linea con la filosofia dello streetwear. Arriverà un momento nel quale, come loro, il pubblico che acquista un marchio perché si riconosce precisamente in quell'identità stilistica, si rifiuterà di vederla fondersi, a scopi di lucro, con un'altra? Siamo certi che la Generazione Z ce lo farà sapere presto.