La notizia, arrivata a fine novembre, ha stupito tutti, Amazon compreso: il gigante dello sportswear Nike ha infatti annunciato che avrebbe lasciato il più grande negozio al mondo, concludendo il programma pilota iniziato nel 2017. Perché? Cosa significa per l'e-shop dai volumi monumentali (300 milioni di utenti attivi e 1 milione di nuovi venditori solo nel 2019), e per il gigante del Just do it? Perché, comunque, ad oggi, è ancora possibile trovare prodotti con lo swoosh sulla piattaforma? E la dipartita del marchio, alfiere di una inaspettata controtendenza, vedrà altri brand seguirlo? La questione è ben più complessa di come appare.

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Il dato dal quale partire è pero uno solo: pur avendo milioni di mq di magazzini, Amazon permette anche a terze parti di catalogarsi come venditori, con il proprio magazzino e scorte, e procedere alla vendita, pagando ovviamente al gigante americano una commissione su ogni acquisto. In un recente articolo sul WWD, Selling on Amazon: Just do it, si stima che circa il 50% delle vendite totali sul sito avvengano in questa maniera. E proprio questo motivo aveva spinto Nike nel 2017 ad un accordo con Amazon: data la grande quantità di sneaker contraffatte presenti, così come di prodotti originali, ma proposti all'acquisto da venditori sprovvisti di una licenza regolare, il marchio con sede nell'Oregon aveva pensato di poter migliorare il proprio controllo sul mercato globale di Amazon, con la propria presenza diretta, chiedendo in cambio all'e-shop delle regolamentazioni più strette rispetto alle vendite effettuate tramite terzi. Una operazione definita dagli analisti economici un win-win, ovvero un affare per entrambe le parti, visto che Amazon mirava da tempo ad espandersi nel settore delle sneaker e dell'abbigliamento tecnico. In realtà, non è filata liscia come ci si immaginava. Nonostante gli sforzi congiunti dei due giganti, Nike si è vista sorpassata, nelle vendite, da parti terze che avevano già accumulato recensioni di altri utenti, e quindi un punteggio di affidabilità superiore, nonostante si trattasse di venditori senza licenza, o peggio, venditori di falsi. D'altro canto si è messa di mezzo una logistica che non ha aiutato: Amazon aveva sì adottato già il Transparency Program (con le politiche protezionistiche di stampo trumpiano i marchi americani vanno protetti da contraffazioni come prima, più di prima e il Counterfeit Report della Casa Bianca ha inoltre stimato che su Amazon, Ebay e Alibaba sono stati venduti negli ultimi 7 anni almeno 150000 pezzi falsi) ma l'operazione non era adatta ad un gigante come Nike. Nel pratico, per garantire l'autenticità dei prodotti messi in vendita Amazon chiedeva ai marchi di fornire i pezzi, già in fase di manifattura, di un codice a barre da loro rilasciato. Una mossa che può essere valida e funzionale per marchi di piccole e medie dimensioni, con un inventario modesto, non certo per chi, come Nike, muove e produce settimanalmente milioni di pezzi.

Da qui la decisione del brand di sportwear di dire addio ad Amazon, visto il mancato raggiungimento dell'obiettivo prefisso, e procedere a vendere direttamente attraverso i propri canali di e-shop, per offrire una esperienza migliore al proprio cliente. Su quanto questa sia una mossa valida, sono in molti a dibattere. Abbandonare la piattaforma digitale tra le più potenti al mondo, non vuol dire infatti che i prodotti Nike non saranno più disponibili su Amazon, anzi. L'e-shop di Seattle, libero dai freni che si era auto-imposto pur di avere tra i propri partner Nike, ha già proceduto a rinnovare accordi con venditori terzi. Più che la diminuzione delle vendite però, del quale sicuramente il brand non sentirà il contraccolpo, ad andare persi, secondo il WWD, sono quanto di più importante esista, nella società digitale del terzo millennio: i dati. Più che una piattaforma dove comprare, la potenza di Amazon è nel suo essere uno strumento di ricerca: il 79% dei consumatori globali considera l'e-shop un passaggio obbligato nel proprio percorso d'acquisto, e 9 consumatori su 10 lo utilizzano infatti per paragonare i prezzi. Inoltre, il 66% delle ricerche di prodotti vengono ormai effettuate direttamente all'interno del sito (basti pensare che Google ha "solo" il 20% ). Cosa chiedono i consumatori, come, con quali specifiche caratteristiche, e a quale prezzo, sono dati fondamentali per molti marchi. Certo, Nike ha la potenza economica e logistica per investire sui propri programmi di loyalty come Nike Plus (un programma di membership che fornisce ai suoi iscritti molteplici vantaggi, tra i quali l'accesso prioritario alle nuove uscite, sconti speciali nel giorno del compleanno, possibilità di personalizzare le scarpe, o anche consigli sull'allenamento attraverso una squadra di esperti), ma sicuramente la panoramica fornita da Amazon era preziosa.

Ad essere convinti che invece il brand ci abbia visto lungo, sono i giornalisti della rivista economica Forbes, che citano predecessori eccellenti, che hanno lasciato l'e-shop prima di Nike – nonostante, comunque, per la stessa regola di sopra, i loro prodotti venduti da parti terze sono ancora disponibili – come Vans, Louis Vuitton, Ralph Lauren, Rolex e Patagonia. L'idea, che sembrava rivoluzionaria anni fa, e che oggi invece sembra un obiettivo possibile, è che tutti, non solo le grandi maison sopra citate, possano facilmente vendere attraverso i propri canali, senza dover prosciugare il portafoglio. A renderla realistica, sono la molteplicità di app e programmi ad oggi disponibili: si può costruire uno store online con Shopify (con 29 dollari al mese il programma comprende anche lo stoccaggio della merce nei loro magazzini, dai quali poi loro stessi procedono ad inviarla al compratore); i pagamenti si gestiscono con Stripe; i resi si gestiscono con Returnly; le famose consegne in giornata sono operate da Dark Store; persino fare credito, come succede con Amazon, tramite Affirm. Siamo all'inizio di una nuova era dello shopping online? Secondo Nike, per farlo accadere, come hanno dimostrato, basta il "just do it".