Sergio Tacchini non esibisce sulle sue polo scritte in cirillico, non è uno skater che arriva da Venice Beach, ma neanche un trapper con una storia personale puntellata di drammi e fedine penali non particolarmente inclini alla pulizia, oppure un designer affetto da bipolarismo in lizza per il ruolo di presidente degli Stati Uniti, ma in questi giorni ha suscitato l'interesse del pubblico americano. L'audience statunitense, che dal suo scopritore, Cristoforo Colombo, ha preso quell'entusiasmo quasi bulimico per le nuove terre – e i nuovi brand, meglio se oscuri e poco noti ai profani – è incappato, il 31 luglio, nel nuovo visual album di Beyoncé, Black is king, che fa da complemento visivo alla colonna sonora da lei scritta l'anno scorso per il remake del Re Leone. Nel filmato, tra le apparizioni di tutta la corte della regina della musica pop contemporanea, non mancano gli amici, dalla ex sodale nelle Destiny's Child Kelly Rowland a Pharrell Williams, passando per l'attrice premio Oscar Lupita Nyong’o e Naomi Campbell. In questo contesto di riunione familiare non poteva ovviamente mancare il coniuge, il rapper e imprenditore Jay-Z, luminare della musica e guru di molti giovani americani privi ormai di certezze od ossessioni, ormai forse stanchi di aver l'armadio pieno di t-shirt Supreme, come un qualsiasi rapper dell'hinterland milanese. E proprio in alcuni frame, Jay-Z indossa un blazer rosso, fascia in cotone di spugna bicolor come nei migliori film di Wes Anderson – a loro volta ispirati dall'estetica Seventies nata sui campi di terra rossa – e una polo a righe, con un logo minimale e ancora mai intercettato prima.

instagramView full post on Instagram

E così, i millennial americani si sono svegliati in un mondo nuovo, quello dove, finalmente, c'era ancora, un brand che nessuno dei loro connazionali – e quindi dell'intero universo – conosceva. E invece gli italiani Sergio Tacchini lo conoscono da decenni – e con la solita attitudine italiana un po' esterofila, lo trascurano colpevolmente da un po' – anche se forse la sua storia è meno nota di quelle dei suoi contraltari inglesi e francesi, i Fred Perry e i René Lacoste che invece la popolazione tricolore indossa ancora parecchio.

Eppure di lui il tennista Nicola Pietrangeli – amico con il quale Tacchini aveva disputato e vinto tornei e partite – parlava nella sua autobiografia denotando una certa francofona grandeur caratteriale. "Quella grande fiducia in se stesso gli fece raggiungere traguardi importanti soprattutto nella vita: chapeau! Nella sua megalomania ha creato un piccolo impero ed è stato l'unico al mondo a mettere il proprio nome sulle maglie". Se si può perdonare a Pietrangeli la scarsa conoscenza del ready-to-wear sportivo che va oltre il suolo italiano (Perry e Lacoste non erano d'altronde meno vanitosi), non sbaglia quando parla di impero. Il novarese classe 1938 si accosta al tennis nel 1955 a 17 anni, inanellando una carriera di successi, in doppio con Pietrangeli o anche poi con la moglie, altra tennista di prima categoria, Pierrette Seghers, ma appesa la racchetta al chiodo, la sua importanza nel tennis non diminuisce, ma aumenta, grazie appunto alla trovata di fondare un brand, Sandys Spa nel 1966 – il ritiro è del 1968, anche se continuerà a gareggiare nel doppio fino al 1974 – che poco dopo decide di ribattezzare, mettendoci la sua firma, e il suo nome.

E quella S che ingloba la T coglie lo zeitgeist, e con il passaggio del tennis a sport professionistico proprio del 1968, l'attività necessità di una sua mitologia, e delle sue divinità di riferimento. Così Sergio Tacchini, dotato dello spirito imprenditoriale e della giusta rete di conoscenze, identifica subito chi, dopo Ilie Năstase, potrà sfoggiare sulla terra rossa le sue polo: è lui stesso a volare a Londra per firmare un accordo di sponsorizzazione, uno dei primi del genere, con il padre di John McEnroe. Il contratto viene sigillato in un pub da una pinta di birra, roba impensabile per i moderni e asettici contratti di sponsorship, con interi team in giacca e cravatta pronti ad arrovellarsi su qualunque dettaglio e far la conta dei centesimi. Eppure l'accordo, per i tempi, è dispendioso: "McEnroe viene pagato fino a 400.000 dollari all’anno per indossare Tacchini", dirà il New York Magazine nel 1983, "e oltre a fornire l’abbigliamento a più di 200 insegnanti e giovani promettenti, la compagnia ha sotto contratto altri 25 giocatori in tutto il mondo". L'iracondo americano vince e si arrabbia con i giudici, lanciando racchette e tendenze, da quel "you cannot be serious" rivolto a un giudice a suo dire poco dotato delle diottrie necessarie ad espletare il suo mestiere, poi divenuto espressione di fama mondiale, alle polo, che saranno firmate Tacchini fino al 1986. Un momento di gloria per il brand, ricordato recentemente dal film Borg McEnroe, epopea di una rivalità – che poi, come tutte le migliori rivalità, nella vita privata era una solida amicizia – tra lui e Bjorn Borg. Sul campo della finale di Wimbledon, a vincere è lo sportswear italiano: se McEnroe sfoggia la tracksuit Ghibli di Tacchini oggi oggetto di feticcio, Borg opta per Fila. Vestiti – chissà se poi in accordo – degli stessi colori, i due consegnano alla storia del tennis una delle partite più memorabili, e a tutti gli appassionati di abbigliamento sportivo un momento stilistico la cui perfezione si imprime a fuoco nella memoria. Tra i cultori del fascino vintage c'è anche Wes Anderson, che proprio a quell'immagine si ispirerà per la creazione di Richie Tenenbaum/Luke Wilson, personaggio già iconico nel suo film del 2001, I Tennenbaum, e che sotto il blazer havana indossa una tracksuit di Fila, e tra i capelli la stessa fascia a righe di Borg.

Così, tra gli 80 e i 90, in un momento precedente alla nascita dei giganti americani e tedeschi di Nike e Adidas, sul campo lo scontro è quasi sempre tra chi veste Sergio Tacchini e chi Fila: negli anni l'ex tennista novarese arruola nel suo dream team nomi come quelli di Jimmy Connors, Vitas Gerulaitis, Pat Cash, Martina Navratilova, Mats Wilander, Gabriela Sabatini, e spesso supera le linee di demarcazione, mostrandosi indosso ad altri grandi sportivi, come Ayrton Senna, o persino leggende di Hollywood, come un Gregory Peck avanti con gli anni che si fa ritrarre nel 1987 nel giardino di casa, in compagnia del suo cane, e con indosso, niente meno che una tracksuit del marchio. Gli americani lo notano la prima volta già allora – anche se forse i figli dei ventenni dell'epoca lo incasellano subito nella categoria "ok, boomer", dimenticandosene allegramente. Eppure, se non bastasse Andy Warhol che nel 1977 aveva già scattato il tennista Gerulaitis nelle sua tetralogia classica di Polaroid, con indosso una polo bianco ottico del marchio italiano, dieci anni dopo a ribadire il concetto ci pensano i maestri di Jay-Z (nomi come quelli dei rapper Busta Rhymes, Pusha-T, NAS e i Beastie Boys) che nelle loro canzoni citano il brand con la stessa frequenza con la quale i trapper di oggi decantano Gucci e Versace. "City light spark a New York Night, Rossi and Martini sipping, Sergio Tacchini" canta Nas in Take it in Blood, brano del 1996, dove Sergio Tacchini è il perfetto complemento vestimentario per notti newyorchesi dove l'Italia è sinonimo di eleganza, sia nel ready-to-wear che nell'approccio alla mixology. "Straight up nuts like my name is Mike Bassini, Bonafide household name like Sergio Tacchini" cantano i Beastie Boys in Long Burn the fire, a sottintendere che chiamarsi Sergio Tacchini è una garanzia.

Parallelamente, il brand viene adottato come uniforme dalla sottocultura inglese dei "casuals", sostanzialmente hooligan inglesi ben vestiti, e parecchio furbi. La leggenda urbana narra che i fan del Liverpool durante gli Anni 80, impegnati nel classico pellegrinaggio tra le capitali europee per le competizioni come la Champions League, scoprirono in Francia e Italia marchi come Tacchini, Ellesse e Fila, e decisero di riportare quei brand a casa, dove erano ancora poco conosciuti, potendosi camuffare durante le partite del campionato nazionale da comuni appassionati del gioco del calcio. Altri sostengono che il merito della scoperta è dei Perry boys, molto spesso fan del Manchester United e precursori dei moderni sneakerhead. Una narrativa confusa, come tutte le risse a fine partita, che dette però i natali al "terracewear", laddove la terrace è la curva dello stadio. Nel 1995, è divenuto talmente simbolico di una certa gioventù bruciata e rabbiosa, ben oltre quell'"You cannot be serious" di McEnroe, che la tracksuit di Sergio Tacchini appare addosso a uno dei protagonisti del film seminale di Mathieu Kassovitz, L'odio, che vincerà il premio per la miglior regia a Cannes ma sarà molto inviso alla polizia, di cui la pellicola racconta un'immagine brutale e per nulla edificante. Un po' infastiditi da tanta attenzione, in un moto di sdegnata indifferenza travestito da paggeria, i francesi di L'express già nel 1988 scriveranno, anticipando il film "L'abbigliamento di Sergio Tacchini è simbolo di successo nelle banlieue", a sottintendere che gli abitanti dei cap meno centrali non possono permettersi di sfoggiare la polo di riferimento nazionale, la Lacoste.

Nel frattempo però, le cose diventano difficili per il marchio – anche per colpa dei big brand come Nike e Adidas che giocano al rialzo mettendo sul tavolo delle sponsorizzazioni cifre con le quali non si può competere – che ha lanciato anche una linea di scarpe. I tennisti sono rockstar, e come tali vogliono esser pagati. La slovacca Martina Hingis entra nel 1997 nella squadra di Tacchini ma i rapporti non sono amichevoli, tanto che nel 2001 la tennista sporge denuncia al brand, lamentando il fatto che le scarpe del marchio le avevano causato un infortunio cronico. Non si sa ad oggi, se a farle più male fossero le caviglie o i polsi che cercava di liberare da un accordo economico non troppo vantaggioso, se paragonato a quello che avrebbero potuto offrirle i giganti dello sportswear. Capace però di scoprire nuovi talenti – ancora incapaci di pretendere contratti esosi – Sergio Tacchini intercetta Novak Djokovic che si converte con piacere alla maglia con il logo della S e della T, sull'onda dell'adorazione per il suo idolo d'infanzia, quel McEnroe che ritorna continuamente nella narrazione del brand. L'accordo dura fino al 2012, quando è già entrata in gioco Hembly for Tacchini, controllata cinese che nel 2007 riprende l'azienda sull'orlo del fallimento. Il fondatore, oggi ancora attivo ottantenne tennista e golfista, esce di scena, soddisfatto di aver creato un brand che è riuscito a vivere molte vite in soli 50 anni. Dell'inizio di quest'anno, è la notizia che il marchio è stato acquistato dai fondi americani Twins Lakes Capital e B. Riley Principal Investments, che hanno messo a capo dell'ufficio stile Dao-Yi Chow, co-fondatore del brand newyorchese di streetwear di Public School. Una scelta saggia, nell'ottica di un riposizionamento del marchio nel mercato statunitense, confermata dalla presentazione all'ultimo Pitti, nel gennaio 2020, dove il marchio è arrivato con una collezione che rivisita i grandi classici, aggiungendo i maxi loghi sulle spalle e una spolverata di "american coolness". Forse i tempi sono maturi perché, dopo il reboot di altri marchi italiani come Fila, Sergio Tacchini ritorni indosso ai giovani (e meno giovani) ribelli e fuori dal coro, come John McEnroe e Jay - Z. E che il merito sia di una società americana, è un dato di fronte al quale, come direbbe McEnroe "you cannot be serious".