Esiste davvero un problema di razzismo nella moda italiana? E cosa si può fare per risolverlo? Per prima ha protestato Stella Jean, che ha denunciato discriminazioni prima sulle pagine di Marie Claire Enfants e in seguito con il progetto Italians in Becoming, video che mette a fuoco l’emergenza culturale sulla non inclusività nella nostra società di giovani protagonisti di un’Italia multiculturale. Stella Jean è mentore del progetto Exquisite Beauty - We are made in Italy, and Italy is made of us, rassegna al Salone White di stilisti afroitaliani, idea nata grazie alla collaborazione dell'associazione no profit Afrofashion. La sua presidente, Michelle Francine Ngonmo, in una conversazione sulla piattaforma afrofashion.org, pronuncia parole durissime. «Non basta mettere una modella nera in copertina o cercare di giustificare il razzismo con l’ignoranza: è un approccio superficiale, non approfondito». E ribadisce l’urgenza di cambiare radicalmente mentalità.

Da anni si parla di appropriazione culturale, di cultura della diversità come arricchimento e non come compiacente indulgenza. Il movimento #BlackLivesMatter, non a caso a seguito di quello del #MeToo, è la metafora di un Occidente che riflette su se stesso e sugli errori compiuti, da cui l’industria della moda non può chiamarsi fuori. Ma c’è da auspicarsi anche che questa posizione dei creativi afro-discendenti (questo è oggi il termine politically correct) non sia solo un trend di cui non si parlerà più tra due/tre anni, bensì l’inizio di una conversazione tra due continenti che hanno ancora molto da dirsi: soprattutto nella costruzione di una nuova estetica che tenga insieme l’identità storica di ogni singola nazione (l’Africa ne ha 54 e tutte diverse contro le 27 dell’Europa, quindi smettiamo di chiamare moda africana: iniziamo a dire moda camerunense, senegalese, nigeriana), e le aspirazioni di un pubblico che grazie ai social è sempre più globale anche nei desideri. Del resto, ci deve essere consapevoli che solo una identità forte e cosciente di sé è capace realmente di concepire l’altro.

Si potrebbe iniziare dall’appuntamento al White, appunto. È il corrispettivo del Fuorisalone per il Salone del Mobile, da quest'anno «aperto alla città: a proposito del razzismo, per noi è importante collaborare con realtà che promuovono diverse tradizioni e ricchezze culturali e l’Italia può loro offrire molto», considera Federico Poletti, responsabile della comunicazione. «Da sempre sosteniamo le nuove generazioni di creativi, ospitando designer di paesi diversi, dal Portogallo alla Georgia, fino al Brasile e alla Cina. Negli anni è diventata la kermesse di riferimento per le medie e piccole imprese italiane e internazionali». Massimiliano Bizzi, che l’ha fondato nel 2000, pensa che dischiudere la torre d’avorio in cui da sempre si rinchiude la moda renda White un’esperienza unica: «Credo molto in questo nuovo format aperto al pubblico che ho già sperimentato con eventi come una sfilata in Piazza Duomo fino ai percorsi per scoprire le Chiese nascoste di Milano. Abbiamo così messo in pista un primo "episodio pilota" durante questa fashion week coinvolgendo diversi store. Oggi per realizzarlo chiediamo l’aiuto di tutti gli imprenditori per rendere la fashion week più dinamica. Come il design la moda può raggiungere un pubblico più ampio e per gli imprenditori è un’opportunità incredibile».

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Una giornata che conosce le geometrie gentili di Gabriele Colangelo, ormai firma consolidata di uno stile italiano che deve molto all’arte contemporanea e all’artigianato che gli permette intrecci di rete come nasse che racchiudono i vestiti, elasticizzano tessuti piatti come il cotone, annodano in trecce sottili strisce di tessuto che incorniciano abiti dal piglio sexy per una donna che «più che sedursi, vuole esplorarsi». È molto strutturato – corsetti, giacche over e crinoline - il rustico-romantico di Lorenzo Serafini per Philosophy che sarà amato da ninfe bucoliche e concrete, pronte per vestirsi così al Festival di Glastonbury (se ci sarà).

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Philosophy by Lorenzo Serafini SS 21

E, a dispetto di una certa malinconica tenerezza che ricorda le atmosfere di Wes Anderson, sono creazioni simil-couture quelle di Jeremy Scott per Moschino: ha realizzato un delizioso cortometraggio di marionette vestite con gli abiti di una sfilata in atelier un po’ Barbie, un po’ anni 50 (ah, il riflusso!). Abiti che, tradotti in realtà, finalmente rifuggono dalla facile ricetta della felpa stampata con la stampa di stagione: in realtà rivelano la struttura che normalmente viene nascosta, come se fossero indossati al contrario, con l’interno reso visibile. E anche qui, forse, è cucito tra le pieghe uno statement politico: ci siamo tutti stancati di fake news e dispacci travestiti, abbiamo voglia di verità.

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L’esperienza del lockdown sembra aprire il cuore e gli armadi a un sentimentalismo non sdolcinato, alla voglia di riconoscersi nell’altro o nell’altra con capi chiari, puliti, netti, eppure teneri. Anche se non sfila, Gucci affida al collettivo dei cartoonist di Frankenstein – rivista indipendente di fumetti – l’illustrazione della collezione, MX. disponibile online: più che genderless, capi e accessori che fanno di un solo guardaroba dove lui e lei, lui e lui, lei e lei possano pescare dagli stessi spazi: «L’esaltazione dell'espressione di sé in nome dell'uguaglianza di genere». Che la parità . e non la sovrapposizione - dei generi sia un ennesimo razzismo da superare? Forse.

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Courtesy Gucci
Illustration by Nygel Panasco

Naturalmente riesce a farlo in maniera brillante Salvatore Ferragamo, disegnato da Paul Andrew. Prima del défilé, un cortometraggio di Luca Guadagnino (per Ferragamo ha girato Il calzolaio dei sogni, presentato con successo alla Mostra del Cinema di Venezia), anticipa i vestiti che vedremo in passerella, come costumi di un film del quotidiano dove si rincorrono architetture di una Milano mai così bella e vuota e modelle e modelli in un reciproco incontro (e subito ricordiamo Io sono l'amore, opere del regista del 2009). Che però non avviene. E questo cercarsi si riveste di sofisticata semplicità - tute e modelli lineari in colori da fondant: glicine, fragola, sabbia, albicocca, castagna – a percorrere itinerari che non s'incrociano mai. Una delle presentazioni più suggestive ed emblematiche dell’oggi, dove sappiamo chi siamo, ma non possiamo trovarci tra noi, anime simili e consonanti. Call me by your name e forse ci raggiungeremo. Se il mondo malato ci farà questo regalo.

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Alessandro Viero//LAUNCHMETRICS SPOTLIGHT
Salvatore Ferragamo SS 21