Se le previsioni per il futuro sono incerte, incerto non è il futuro di Emma Bruschi. Lei è già il futuro. Abbiamo preso una macchina del tempo per raggiungerla e farci raccontare cosa significa avere 24 anni e provare a scardinare, con la gentilezza di un polpastrello che tesse la paglia o di un polso che ricama il cotone candido e compatto, i meccanismi frenetici, impersonali, inanimati di cui spesso l’industria della moda contemporanea sa essere triste paladina. Questa giovane fashion designer, neo vincitrice del premio The Chanel Métiers d'Art 19 della 35esima edizione del Festival di Hyères, lo fa confezionando un brand completamente sostenibile, omonimo, che al lusso, calma e voluttà baudelairiano antepone il trittico nostalgia, calma e lentezza. Con le sue mani coltiva le materie prime con cui tesse i propri abiti-scultura, dalla pelle di kombucha alla paglia di segale -, con le sue mani tinge quei “tessuti crudi”, come ama chiamarli, e perché darle torto, utilizzando le palette naturali degli ortaggi, la buccia di cipolla ne è capofila, con le sue mani sfoglia antichi almanacchi contadini per scoprire chi è, da dove viene e dove andrà. La collezione presentata al festival internazionale di moda, fotografia e accessori, quella che si è distinta fra tutti i brand partecipanti al programma di mentoring digitale in ecosostenibilità sostenuto da Mercedes-Benz e Fashion Open Studio, si chiama infatti Almanach, ed è ispirata ai testi popolari dei suoi antenati, gli abitanti di una Savoia rurale e agricola. “In ogni casa sapevano ricamare, filare, lavorare a maglia, cardare, lavorare il ferro o la paglia. Non erano ancora artigiani, non erano necessariamente mestieri: era un'abilità domestica che si tramandava di generazione in generazione”, racconta la designer classe 1995, laureata all’Haute école d'art et de design di Ginevra, la sua città natale. “Queste persone, che non hanno avuto la possibilità e il lusso di sprecare, hanno mantenuto la passione e l’amore per la terra nonostante il calendario ostile del lavoro nei campi e i capricci della natura”.

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Il mio francese maccheronico mi ha tradita o hai per caso detto che le biotecnologie sono una nuova forma di artigianato?
No no, hai sentito bene. Ci ho scritto persino una tesi sul tema. Credo che coltivare, far crescere, dare vita allo stesso materiale che userai per confezionare i tuoi vestiti sia qualcosa di potentissimo. Tanto a livello produttivo quanto emotivo, diciamo. Dopo una serie di ricerche, mia grande musa è stata la fashion designer londinese Suzanne Lee, lei lavora persino con gli scienziati (!), ho iniziato a sperimentare con le fermentazioni. Il risultato è una pelle vegana e completamente biodegradabile derivata dalle fibre di cellulosa del tè kombucha. Mi sono talmente fomentata che ho pensato potesse essere così facile risolvere i problemi dell’inquinamento dell’industria tessile…

Ecco, quanto è costoso oggi lanciare un brand di moda sostenibile?
Se hai le spalle scoperte come me, la risposta è molto. Tanto in termini economici quanto di tempi e sforzo. Per un anno ho avuto la cantina di casa dei miei genitori colma di recipienti in cui coltivavo il kombucha. P.S. L’odore non era dei migliori, ti avverto… Però è un gioco che vale la candela, è questo il compromesso in questo momento storico. Il prezzo è un fattore relativo se lo accosti al valore che stai dando al tuo prodotto. Un po’ come succede nell’industria agroalimentare.

Come ti è venuto in mente di prendere l’Almanach du Paysan?
L’ho sempre visto tra le mensole della cucina, ricordo di averlo iniziato a sfogliare sin da bambina, era diventato un po’ un tormentone. Per me è il simbolo dell’art de vivre dei miei nonni e delle generazioni antiche, quelle la cui vita era scandita dalle stagioni e dai ritmi della natura e dell’allevamento. Tutto era connesso, dalla cucina al lavoro. È un po’ quello che ci manca nelle nostre vite metropolitana. Ho trovato nell’Almanach uno strumento per esprimermi, per essere anch’io contadina e artigiana al tempo stesso.

Anche la palette colori della collezione ci fa viaggiare verso mondi bucolici…
Sì, c’è tanto bianco come le pietre delle case di campagna, colori della terra per rispettare i miei materiali crudi. L’arancione, ad esempio, è ottenuto utilizzando le bucce di cipolla come tinta naturale. Oppure ho utilizzato coloranti naturali prodotti da due ragazze nel Sud della Francia.

Chi sono gli altri artigiani o agricoltori con cui collabori?
La maggior parte di loro provengono dal Sud della Francia, dove sono cresciuta, o dalla Savoia, lì si trova una filatrice di lana che è anche una donna speciale. Molti altri artigiani si trovano in Svizzera, paese prezioso anche per i suoi musei. È lì che spesso e volentieri trovo i contatti di persone che sanno lavorare certi materiali. Al Museo della paglia di Wohlen, infatti, mi hanno indicato i migliori tessitori d’Europa.

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In cosa consisteva e come sei stata supportata concretamente dal programma di mentoring digitale in ecosostenibilità di Mercedes-Benz e Fashion Open Studio?
Sono stata seguita e guidata passo dopo passo in tutto il mio percorso dalla creative director di Fashion Open Studio e tutto il team dell'organizzazione mondiale non profit impegnata per un'industria del lusso più sostenibile. Hanno condiviso le loro conoscenze in tema di moda sostenibile, (ri)utilizzo delle risorse esistenti, riduzione della produzione di materie prime vergini, hanno spinto molto il mio amore per l’agricoltura, hanno creduto in me tanto da premiarmi come migliore stilista finalista ad aver integrato pratiche responsabili nel proprio lavoro.

Hai appena iniziato, okay, ma secondo te qual è il segreto per rendere una collezione “vendibile”?
Posso dirti quello che farò io non appena lancerò ufficialmente il mio brand: presenterò e lavorerò capo per capo, non su tutta un’intera collezione. Probabilmente partirò dai miei accessori e borse in paglia, fragili, sì, ma preziosi pezzi unici. Così, avrò in primis il tempo di produrre con attenzione ai minimi particolari, dal bottone all’etichetta ho una cura maniacale, e anche di riflettere bene su ogni lancio, anche da un punto di vista di smart marketing. Una cosa sono sicura di non voler fare, industrializzare le mie collezioni. Sarebbe un po’ come denaturare il mio lavoro.

È più facile o più difficile emergere per un indie brand oggi?
È piuttosto dura, soprattutto se hai le spalle scoperte, parlo della mia esperienza personale. Ma c’è bisogno che ognuno si esprima e provi a dire la sua e fare il suo meglio, non dobbiamo lasciarci scoraggiare. Certo, a scuola ti insegnano come si fa a nuotare ma quando ti butti nel mondo vero devi stare a galla da sola, come è giusto che sia, come tutte le cose. L’importante è avere chiaro chi si è e cosa si vuole dare con il proprio brand.

Qual è la sfida più grande nel disegnare una collezione maschile?
La stessa di una collezione femminile: dare umanità agli abiti. Ovvero, creare qualcosa di vivo, dinamico, originale ma allo stesso tempo equilibrato, portabile e, quindi, per ritornare al tuo discorso di prima, vendibile. Poi, nel caso della collezione uomo Almanach, ho voluto giocare con trasparenze e dettagli delicati che di solito sono presenti nei capi più femminili…

Cosa dobbiamo aspettarci da te nel futuro prossimo dopo il “capitolo kombucha”?
Ancora kombucha! Devo migliorarmi sempre più. E poi sto iniziando a pensare di esercitarmi con il psillio, una pianta officinale commestibile, vediamo come va. Inoltre, il festival mi ha aperto un mondo di opportunità, proposte, collaborazioni e shooting. Adesso voglio lanciare per bene il marchio e vendere le collezioni. In parallele, continuerò a tenere dei workshop per bambini e adulti per trasmettere le tecniche che ho imparato, come il metissage e il tressage, l’intrecciatura della paglia. Voglio che il mondo sappia che la natura ti dà gli strumenti per creare tutto quello che vuoi.

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Emile Kirsch
Emma Bruschi al 35esimo Festival di Hyères