Esiste un momento migliore di altri per lanciare un nuovo progetto? C'è ancora l'epifania, quel momento quasi catartico di chiarezza assoluta, nel quale si scopre il senso della propria vita, e della missione alla quale si vuole dedicarla? Se anche fosse, non è andata esattamente così per i designer che hanno deciso, più o meno consapevolmente, di lanciare un nuovo brand nell'Anno Domini 2020. Nessuna programmazione pianificata al millimetro, o astuto e machiavellico business plan, quanto una necessità – celata e tenuta sotto controllo nel pre-pandemia, quando tutto sembrava davvero pianificabile, ponderabile – e che poi è esplosa, nel momento nel quale quelle certezze alle quali ci si è aggrappati per anni, si sono rivelate in tutta la loro fragilità. Una tendenza più umana che scientifica, quella della proliferazione di nuove – e interessanti – realtà nell'universo del ready-to-wear, che però, secondo il WWD, coglie lo zeitgeist di un momento incerto, e che proprio per la sua intrinseca mancanza di definizione, offre le opportunità a quanti vogliano, dopo anni di palestra negli uffici stile delle maggiori maison, volare in solitaria. Nel pezzo Italian emerging brands find opportunities in affordable luxury, tramite esperti del settore, buyer e proprietari di negozi, si evidenzia infatti la facilità con la quale, piazzandosi nella categoria di un lusso "accessibile", in termini di prezzo, le realtà emergenti possano trovare il modo per essere presentate al pubblico, nei concept store, di fianco a realtà ben più conosciute, e però godere, finalmente, della stessa attenzione. Uscire dal cono d'ombra nel quale i brand indipendenti sono relegati – per via di una disponibilità economica limitata, che non concede loro, almeno agli inizi, i costi di una sfilata durante le principali fashion week o di una produzione di un numero di capi necessario per presentarsi all'appuntamento con i buyer, ad esempio – diventa così possibile. La conditio sine qua non, è però quella di immaginare un guardaroba che trovi il perfetto equilibrio tra qualità dei materiali, prezzo e ricerca estetica: un armadio che parli della nostra contemporaneità, caratterizzata, ci piaccia o meno l'idea, dalla necessità di capi pratici, sostenibili, e capaci di resistere al passaggio delle tendenze, e quindi, molto spesso, lontani dalle stravaganti fantasie stagionali delle maison.

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Des Phemmes, s/s 21

Ed infatti a questo ha pensato il giovane Salvo Rizza, quando ha lanciato il brand Des Phemmes. Nato in Germania nel 1989, studi alla Marangoni di Milano, le ossa si costruiscono nell'atelier parigino di Giambattista Valli, dove ricopre la carica di coordinatore dell'ufficio stile del ready-to-wear e dell'haute couture. Ritornato in Italia, decide di lanciare un brand che racconti la sua visione di femminilità, imbevuta di sole e Sicilia, la terra natia, anche se mediata dall'attenzione al decorativismo tipica di Valli, e dalla predilezione verso volumi affilati, che guardano agli imperituri nineties di Kate Moss. Il risultato è una collezione S/S 21 d'impatto – come nel vestito intrecciato in pelle, realizzata dai pescatori siciliani a mano, che richiede 3 settimane di lavoro – ma anche versatile. Le minigonne, le camicie, i panta palazzo, le jumpsuit, sono realizzate in tessuti naturali (seta e cotone) e sono declinabili dal giorno alla sera, con predilezione per l'orario dell'aperitivo. Se lo studio sul corpo si ispira alle fotografie di Mona Khun – che indagano, attraverso l'utilizzo di luci e ombre, ciò che si nasconde dietro la superficie dell'epitelio – la sostanza di cui si costruisce la collezione è contemporanea tanto quanto le riflessioni sul territorio dell'umano. Tutte le decorazioni dei capi, dalle canottiglie ai cristalli in plexiglass, sono riciclati. Inoltre, il 5% del fatturato viene devoluto a Treedom, associazione che si occupa di piantare alberi – nel caso di Des Phemmes, sono piante di cacao, in Ecuador, che andranno a sostentare le popolazioni locali, abituate a trarre guadagno proprio dalla coltivazione del cacao. La poesia bucolica, che propone un fuga stilistica da una realtà divenuta fin troppo complessa da sostenere, è anche alla base di Ardusse, (crasi letteraria di "arcadia" e "jeunesse") brand firmato da Gaetano Colucci: tra gli studi di economia alla Luiss di Roma e quelli alla Stanford University, c'era l'idea persistente di dedicarsi ad una collezione di abbigliamento non definita dal genere, ma da una comune idea, pastorale ed idilliaca, di bellezza. Il primo risultato è in una linea che prende ispirazione dal I Idillio di Teocrito, poeta siracusano che vedeva nell'Arcadia – regione della Grecia Antica corrispondente all'attuale Peloponneso – la terra promessa, concetto che poi nella poesia sarà ripreso anche dall'inglese John Keats, che, in quell'angolo lontano e mitizzato, vedeva l'Eden in Terra. Così, i colori – come le tinture – sono naturali, pastellati, lilla e beige leggermente polverosi e regalano una certa dolcezza a dei pezzi intramontabili, blazer, parka, anorak, pantaloni: il contrasto, che regala a questi capi nobiltà, è nelle lavorazioni, con dettagli crochet, jacquard sontuosi tra i quali si fa spazio il volto di Narciso, ruches sulle camicie e stampe delicate, sognanti. Con prezzi che partono dai 180 per una t-shirt, per arrivare ai 2000 di un cappotto, il segmento di pertinenza – in materia di tessuti, e produzione, realizzata dall'italiana Pattern – è quello del lusso, certo, ma con un cartellino più economico rispetto a quello delle grandi maison.

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Ardusse s/s 21

Il focus è invece sulla maglieria, e sulla sua capacità rassicurante di fare da seconda pelle, per Andrea Adamo, che ha lanciato la sua prima collezione eponima (Adamo) per la s/s 21. Un curriculum forgiatosi con anni di militanza negli uffici stile di Dolce & Gabbana, Elisabetta Franchi, Roberto Cavalli e Zuhair Murad, tutte maison a loro agio con una idea di sensualità esibita principalmente dall'ora dell'aperitivo in poi, la contemporaneità è nelle cromie naturali, nelle sovrapposizioni, in un'estetica inclusiva e nel prezzo medio al cliente finale (350 euro). Follia o genio, lanciare un progetto del genere nell'Anno Domini 2020? «Parlerei di sana follia» spiega Adamo, «intesa come una capacità di relativizzare gli eventi, e interpretarli non solo con più serenità, ma anche con un ottimismo contagioso. E ogni ottimista, in fondo, è un po' folle. Il lockdown mi ha dato il tempo per riflettere, osservare quanto stava accadendo intorno a me, fare ricerca: da qui è nata la necessità di veicolare un messaggio che parlasse di me e di nessun altro. Ovvio, quando lavori per una maison interpreti i suoi codici. La propensione alla sensualità – poi espressa nei miei anni da Dolce & Gabbana, Zuhair Murad, Roberto Cavalli – ha sempre fatto parte di me, ma volevo darle un'impronta più personale, meno prorompente e più misteriosa». Un ideale reso possibile attraverso l'utilizzo di una maglieria nude e e intimista declinata su short, top dai tagli cut-out, maxi cardigan, leggings e vestiti dalle silhouette avvolgenti. «Il concetto alla base era quello di realizzare abiti che fossero come una seconda pelle, privi di decori, zip o cuciture: in questo senso la maglieria e il jersey con lavorazione seamless erano perfetti per lo scopo». Un approccio naturalista, in purezza, e per questo intrinsecamente erotico, quello di Adamo, la cui ambizione è che chi lo indossi, poco importa se uomo o donna, possa «sentirsi se stesso, in linea con il proprio essere, senza vergogna». Un'aspirazione da innocenza primordiale raccontata con poesia, sul filo del jersey e del cotone.

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Adamo s/s 21

Una devozione al corpo femminile che Adamo condivide con Alessandro Vigilante, 37enne pugliese, alla collezione di debutto con il brand omonimo. Dopo 13 anni negli uffici stile di Dolce & Gabbana, Gucci (dove era responsabile delle celebrities e dei loro abiti da red carpet) e Philosophy di Lorenzo Serafini, si è fatta strada la necessità di parlare con la propria voce. Un focus, quello sul corpo, che, nel caso di Vigilante, risale ad una carriera e da una vita precedente, dato che prima di divenire designer, ha studiato danza contemporanea. Un percorso che lo ha reso adepto, come molti, al culto laico del teatro-danza di Pina Bausch. La stasi e il movimento, la fluidità e l'immobilità sono così dicotomie che rivivono nella sua collezione, Atto I, tramite la contrapposizione tra materiali suadenti e tipicamente femminili, georgette di seta e lana viscosa, con texture futuribili, tecniche, che regalano struttura ai blazer maschili, o lattice con effetto guaina, colori nude contrapposti a nuance accese, giallo lime o azzurro piscina. «Il responso degli addetti ai lavori è stato positivo» spiega Vigilante. «Alla collezione viene riconosciuta una chiarezza nel messaggio e una credibilità, data dalla capacità, che ho sviluppato negli anni di lavoro per le maison, di costruire nel dettaglio blazer, tutti sfoderati ma capaci di conservare un loro volume strutturato, anche con dei cut out. A farmi piacere è però la risposta delle donne: molte di loro mi scrivono esprimendo apprezzamento per i miei body, che ho abbinato a dei classici pantaloni maschili. E al di là delle tendenze che vanno e vengono, e che parlano di un ritorno alla sensualità, l'obiettivo è quello di far sentire le donne sicure, a proprio agio nella loro pelle». Il risultato nel suo caso si raggiunge attraverso un'opera di riduzione, scoprendo ad hoc, quel corpo, ed evidenziandone una parte in particolare: la schiena. «Credo che non ci sia nulla di più “espressivo” di una schiena: penso a quella di Carolyn Carlson, ballerina statunitense (esibitasi anche all'Opera di Parigi con Rudolf Nureyev, ndr), ma in generale credo che sia una parte del corpo capace come poche altre di raccontare una storia, comprese le sue cicatrici emotive e i suoi sforzi fisici. Le schiene parlano, e raccontano di una vita: ed è quello che vorrei per i miei abiti. Essere riempiti da una donna che li viva, e di conseguenza, li renda protagonisti di una storia: la sua».

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Marcello Arena
Atto I di Alessandro Vigilante

E una carriera puntellata di nomi di pregio, è anche quella di Christian Boaro, che ha inanellato negli anni lavori da Dolce & Gabbana, Versace, Gianfranco Ferré - seguendo la linea GF Ferré – e Ports di cui è stato head designer per diversi anni. Poi, i casi della vita, lo hanno portato a ritrovarsi con una collezione che gli girava in testa da parecchio, che avrebbe voluto usare come biglietto da visita, per presentarsi ai maggiori buyer, e che invece ha suscitato talmente tanto interesse da essere poi andata in produzione (in quantità ridotte, per una precisa scelta legata alla volontà di focalizzarsi su boutique di pregio, per le quali realizzare un prodotto ad hoc). «Il concepimento di questo progetto, CHB, è in realtà iniziato quasi 2 anni fa» spiega Boaro. «Ero in Cina, dove stavo seguendo la direzione creativa di un altro brand, poi la malattia di mia madre mi ha riportato in Italia, dove ho iniziato a prendere coscienza di molte cose: tra tutte, l'esigenza di esprimermi con un progetto che fosse solo mio, idea che rimandavo già da molto. Sono un fatalista, credo nel destino: ho cercato di trarre anche da un momento di grande dolore e difficoltà (la madre è venuta a mancare poco dopo, ndr) qualcosa di positivo». Blazer doppiopetto con revers in seta, abiti da sera optical dalle linee morbide, orecchini con perle barocche e catene dorate al collo, felpe caratterizzate da un logo a metà tra stemma araldico e lettering da cappellino da baseball, le nuance sono assolute – bianco e nero – l'idea di creare un guardaroba senza tempo, dichiarata. Artista poliedrico – i suoi scatti con le Polaroid, che riecheggiano della nudità già decantata da Robert Mapplethorpe, sono stati esposti al Plasma di Milano nel 2018 – il casting che si è fatto corpo e immagine di questa collezione di debutto, è variegato. «Più che il racconto di questo o quel pezzo di un guardaroba, volevo che questa mia "prima", racchiudesse la mia idea di bellezza» spiega Boaro. «Per questo ci sono dei modelli professionisti, ma nella maggior parte dei casi si tratta dei miei amici, persone che negli anni hanno sempre sostenuto il mio lavoro». Così ì volumi scenografici degli abiti si mescolano a pezzi più streetwear, il pizzo si abbina alle lane secche, di solito utilizzate per i completi maschili. «Mi sono reso conto con stupore» spiega Boaro «di aver realizzato una versione più adulta di quella che era stata la collezione con la quale mi ero laureato in Marangoni, e che era stata fortemente ispirata dagli anarchici dell'epoca, uno su tutti McQueen. Con gli anni, quella narrazione dark, termine che non amo particolarmente, si è tramutata in qualcosa di più sofisticato, misterioso, noir, ma i prodromi erano già lì. La chiave di volta è stato un lavoro di sottrazione, che ha funzionato già negli Anni 20 con Coco Chanel, maestra nel trasformare un tessuto usato per l'intimo, il jersey, e renderlo perfetto per il tailleur, emancipando le donne da crinoline e vezzi del secolo prima. Con risultati e ambizioni ovviamente diverse (ride, ndr) l'obiettivo che mi sono posto era lo stesso: riportare l'attenzione sulla femminilità, concentrandomi su pochissimi colori, e alcuni capisaldi, che si potranno riutilizzare anche tra 5 anni. La mia percezione è che la gente si sia stancata di comprare – e mangiare – fast. I clienti sono più attenti, consapevoli, cercano ritmi diversi: così, forse, in fondo, era il momento perfetto per iniziare questa nuova avventura. Ad un certo punto, quando hai lavorato per diversi anni presso le più grandi maison, senti il bisogno di reclamare la tua indipendenza, anche a costo di imbarcarti in un'avventura non certo semplice. La soddisfazione maggiore, però, è nella stima e nel rispetto che, tra colleghi, ci riserviamo: conosco bene Andrea (Adamo) e Salvo (Des Phemmes), ci sosteniamo a vicenda e a volte ci prendiamo in giro, chiedendoci "chi ce l'ha fatto fare?", ma in fondo, alla fine, sono più soddisfatto così».

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CHB di Christian Boaro