36 miliardi (di dollari): tanto varrà il mercato del vintage, nel 2024 secondo ThredUp, il maggiore store mondiale di capi di seconda mano. Nel suo report 2020 sullo stato di salute del settore, i numeri sembrano parlare chiaro: oggi acquistare o vendere prodotti di seconda mano genera circa 7 miliardi di dollari e l'acquisto online crescerà, tra il 2019 e il 2021, del 69% (circa 12 miliardi di dollari), mentre gli acquisti di seconda mano nei negozi fisici, saliranno del 2%. Risultati frutto anche della pandemia da Covid-19, visto che, sempre secondo il report, l'incertezza economica nella quale navighiamo ha spinto molti ad avvicinarsi a un settore che non avevano mai approcciato prima, anche con la speranza di trarne guadagno (il 79% afferma che, date le difficoltà del periodo, pianificano di diminuire il budget di solito destinato all'abbigliamento nei prossimi 12 mesi, e 2 su 3 affermano che sono aperti, per la prima volta, all'idea di vendere i propri capi). Un trend intercettato anche dall'editoria americana: il 22 ottobre, online e in formato cartaceo, è approdato il primo numero di Display Copy, magazine patinato, che, a guardare il colophon, potrebbe sembrare un ennesimo esperimento ad alto tasso di glamour (su 2 delle 4 copertine campeggiano Saskia De Brauw e Paloma Elsesser, tra i fotografi ci sono nomi noti come quello di Mark Borthwick, e negli editoriali così come nelle rubriche, abbonda la presenza delle maison più famose, da Helmut Lang a Balenciaga). I vestiti e gli accessori mostrati, però, non si trovano nelle boutique, ma da Salvation Army – storica catena americana di secondhand i cui proventi vanno a finanziare dei progetti benefici a sostegno di chi soffre di dipendenza da droghe o alcool – Etsy, o Ebay.

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«Credo sinceramente che il nuovo non sia più sostenibile» ha detto al New York Times Brynn Heminway, mente dietro il progetto. «L'idea alla base era rendere i vecchi vestiti desiderabili. Mi dicevano tutti che non avrei mai ricevuto sostegno economico da parte dei brand, che nessuno ne avrebbe parlato». Previsioni funeste, ma sconfessate, forse, anche da un tempismo perfetto: il progetto cartaceo, semestrale, sarà sostenuto da un sito aggiornato con costanti servizi, guidati sempre dallo stesso spirito di promozione del vintage. E se i dati di Lyst sostengono che solo a settembre le ricerche di vintage sono aumentate del 104%, sono molti i brand, grandi e piccoli, che hanno abbracciato l'idea, fino a poco prima mai realmente ritenuta come una possibilità di business di successo, oltre che sostenibile, dalle pencil skirt lanciate da Alessandro Dell'Acqua per celebrare il decennale di N°21, tutte realizzate con tessuti delle precedenti collezioni, a Batsheva – brand americano che esplora i codici di femminilità storicamente rappresentati dal Continente, dai pionieri ai vestiti vittoriani, passando per gli hippy – e che ha realizzato con tessuti di stock, degli "housedresses", maxi abiti con i quali passare le giornate di lockdown tra le proprie quattro mura. Ma quali sono gli store italiani e internazionali che rappresentano i fari del settore? Oltre ai grandi classici, piattaforme che ormai hanno raggiunto la popolarità come Vestiaire Collective, complice il momento favorevole, sono molti i nuovi player, che non puntano al modello di business globale di Vestiaire, ma prediligono una nicchia, capace di attrarre appassionati e generare profitti. Un'idea venuta nel 2018 ad Alessia Algani, a cui si deve la nascita di Shop the story, sito di resell di contemporary fashion, e quindi, posizionata in uno specifico spazio temporale, tra il finire degli anni 80 e il finire degli anni 00 del 2000. «Nella vita facevo tutt'altro» spiega Algani, «lavoravo come editor nella sezione saggistica alla Bompiani, ma la moda ha sempre fatto parte della mia infanzia, perché è una passione ereditata da mia madre, e con le mie sorelle passavamo pomeriggi interi nei camerini dei negozi. Lei aveva una passione per gli Anni 80, ma quelli degli stilisti che poi hanno introdotto, nella decade successiva, l'avanguardia del minimalismo, da Yohji Yamamoto a Rei Kawakubo. Andavo ai rave vestita Martin Margiela, e a scuola in Yamamoto. Per questo credo che ogni vestito racconti una storia, che parla di me e della mia famiglia. Negli anni ho ovviamente allargato l'archivio, cercando sia su Ebay, che su Grailed, ma soprattutto negli armadi delle signore della provincia bresciana (dove si situano concept store di riferimento, come Penelope) scoprendo meraviglie, da pezzi di John Galliano e McQueen, a Moschino e Marni nell'era di Consuelo Castiglioni. Oggi, so benissimo cosa voglio, quando scelgo un pezzo: prediligo i designer di Anversa come Dries van Noten, i francesi come Alber Elbaz nei suoi anni da Lanvin e Ghesquière da Balenciaga, Miuccia Prada e Jean-Paul Gaultier».

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courtesy press office
Cappotto in seta trapuntata a stampa floreale Thakoon F/W 2008, giacca a stampa floreale con passamaneria dorata Junya Watanabe S/S 2008 e blusa a stampa floreale Junya Watanabe S/S 2008, su Shop the Story

In un guardaroba che non prevede le calzature («sono quelle che risentono maggiormente del passare del tempo, e delle mode, mentre gli abiti rimangono contemporanei» spiega Algani), i prezzi sono però decisamente abbordabili. «Una giacca di Comme des Garçons costa 300 euro, ancora più interessante se si pensa alla molteplicità di linee del brand mai commercializzate in Italia, di cui ho alcuni pezzi. La media dei prezzi si attesta più o meno lì, tra i 250 e i 300 euro, ma si tratta di capi con un valore indefinibile, nella storia della moda, dalla borsa a forma di palla da rugby di Martin Margiela all'abito leopardato di McQueen, dell'autunno/inverno 2005, ispirato ai look di Kim Novak nei film di Hitchcock». E da una politica sui prezzi, alquanto democratica, parte anche Donatella Musco, stylist italiana di stanza in Francia, che ha da poco inaugurato online il suo Dm Atelier, partendo dai pezzi di archivio raccolti durante la sua lunga carriera lavorativa, che l'ha portata a 30 anni a essere la più giovane fashion director dell'edizione francese di Grazia. «Sono sempre stata contraria al fast fashion» spiega quando la raggiungiamo al telefono «piuttosto che avere molti pezzi senza alcun valore, meglio uno solo, e unico. Il vintage mi è sempre piaciuto, e a Parigi c'è un'idea diversa di questo tipo di settore, rispetto a quello che vedo in Italia: nelle "friperie" si trovano pezzi molto belli, a prezzi democratici, mentre gli store vintage italiani sono in generale più cari». Inizialmente partita come semplice esperienza di compravendita, assistita proprio su piattaforme come Vestiaire Collective, ora, a fronte delle commissioni richieste dal sito (30%) il progetto si è spostato interamente sul canale Instagram, dove si possono trovare trench di Marni a 160 euro, bluse in seta di N°21, e una vasta selezione di pezzi Chanel, di cui Musco è appassionata. «Nel mio archivio personale ci sono pezzi abbastanza introvabili, come i sock boot della spring/summer 2014, calzini correlati da un tacco e da una punta tonda, in vernice. L'idea di trasformare la mia passione in un secondo lavoro mi è venuta durante la pandemia, quando tutti ci siamo dovuti interrogare sui piani B. Magari tra qualche anno il vintage diventerà la mia prima occupazione, ma l'obiettivo da cui sono mossa è un altro: mi piacerebbe molto sensibilizzare il pubblico al second hand, così come all'upcycling (nello store sono infatti disponibili anche delle catene customizzate, bottoni della nonna che si trasformano in nuovi bracciali, pochette costruite con tessuti di Roberta Di Camerino, orecchini di Miu Miu trasformati in charm per una collana, ndr). Tutti hanno il diritto vestirsi "chic, et pas cher", come dicono in Francia». E con una forbice di prezzo che va dai 20 ai 500 euro, l'obiettivo sembra raggiungibile.

Una varietà di prezzi, democratici, che si ritrova anche in una delle mecche milanesi del vintage, quello di 20134 Lambrate, fondato da Cecilia Di Lorenzo, marchigiana trapiantata a Milano ed ex giornalista con la passione del vintage, che ha poi in seguito fondato, con altre due socie, anche Madame Pauline, altro riferimento vintage dal sapore più francese, nella centrale Piazza Cordusio. «20134 Lambrate è stato un sogno divenuto realtà» spiega Di Lorenzo, «che però è nato da un triumvirato, quello formato da me, mio fratello che lavorava nella moda e quindi mi ha insegnato a riconoscere il valore dei singoli pezzi, e mio marito, appassionato di modernariato. Sin da ragazzina andavo al mercato vintage della Montagnola a Bologna, seguivo le fiere più importanti come il Next Vintage al Castello di Belgioioso, vicino Pavia, ma volevo un posto fisico che parlasse di me, del mio quartiere, Lambrate, e quindi è nato lo store». Se nel negozio c'è la possibilità del noleggio («per una parte d'archivio non in vendita, e che affittiamo esclusivamente a costumisti e designer») i pezzi acquistabili annoverano gonne Prada ( tra i 250 e i 300 euro) e pezzi selezionati sulla base delle tendenze, e delle annate. Un esempio? «I Saint Laurent risalenti agli Anni 70, difficili da trovare e quindi obbligatoriamente più costosi, così come le Jackie di Gucci» (che Di Lorenzo ha iniziato a selezionare solo un anno fa, quando Alessandro Michele ha presentato la sua versione editata del classico, durante la sfilata maschile Autunno-Inverno 2020 ndr). E se la gente tende ad evitare gli store vintage, non particolarmente attratti dall'idea di un negozio carico di chincaglierie, relle riempite a dismisura sulle quali cercare, e quell'inconfondibile odore di polvere, Di Lorenzo sostiene che «l'immagine del vintage store aveva bisogno di essere svecchiata. Qui non ci sono gli abiti a corolla Anni '50, bisogna stare al passo con i tempi, mixando pezzi di qualità, ma privi di firma, con abiti delle maison: tutti accomunati dal fatto di essere profumati di fresco». Una clientela formata principalmente da donne tra i 30 e i 55, Di Lorenzo però ha registrato un interesse delle nuove generazioni di italiani, arrivati sull'onda verde di Greta Thunberg, di una rinnovata attenzione alla sostenibilità, acuita dal lockdown. La differenza nel comprare vintage? «Acquisti un pezzo unico: ci sono spose che, comprando qui – dove ci sono anche dei Valentino Couture, utilizzabili come abiti da sposa – hanno potuto fare 5 cambi d'abito, indossando pizzi macramé».

Un'attività, quella di Madame Pauline, che non si è fermata con il secondo lockdown, visto che le vendite proseguono online. Una possibilità purtroppo negata a molti commercianti che, non disponendo di uno spazio fisico o della struttura adeguata, vendono principalmente ai mercatini e alle fiere. Per aiutarli, è di recente nata Vintag, app ideata da Francesca Tonelli e dal suo team di 12 persone (femminile all'80%, e totalmente under 40) dove i 115 mila utenti attivi – commercianti, collezionisti, creativi e appassionati – si incontrano in una piazza virtuale, e quindi sicura. Una possibilità di cui ha approfittato il Remira Market, rendez-vous del second hand che si svolge mensilmente nei pressi del Giardino Aldrovandi di Milano. «Siamo un progetto giovane e a causa dell’epidemia sono già saltate due edizione del nostro market fisico» spiega Katia Meneghini, fondatrice del Remira «in questo momento puntare sulle piattaforme online è un modo per rimanere in contatto con il nostro pubblico e i nostri espositori dando loro un’alternativa “virtuale”, un'opportunità oltre i confini territoriali, per chi saprà coglierla». L'appuntamento ha solo cambiato location, spostandosi sul web, ma non data (il 15 novembre alle 10). E se persino le star di Hollywood stanno diventando sostenitori del recycling – basti pensare a Cate Blanchett allo scorso Festival di Venezia, che ha sfoggiato più di un look che aveva già indossato ad altre prime cinematografiche, come nel caso del top di Alexander McQueen già indossato nel 2016 –la tendenza sembra più dettata da un reale desiderio di sensibilizzare che dalla necessità di distinguersi dalle competitor, sfoggiando un pezzo unico. Lo sa bene Cherie Balch, che già nel 2008 aveva cambiato vita per fondare Shrimpton Couture, omaggio alla modella dei sixties e al suo stile, che incapsulava perfettamente la decade. Chiamata ironicamente Shrimpton, per quella sua attitudine a vestirsi vintage anche in ufficio, Balch ha pensato di trasformare il dileggio in un suo punto di forza, puntando tutto sulla sua passione per gli acquisti second-hand. Oggi, da lei si recano in processione le celebrity stylist che cercano vestiti da red carpet per le loro clienti ( e tra loro ci sono Tracee Ellis Ross, Rosie Huntington-Whitely, Naomi, che ha usato un minidress di paillettes dorate di Paco Rabanne del 1968 per festeggiare Halloween, omaggiando l'attrice Pam Grier, e Rihanna, che è stata fotografata con un vestito Christian Dior in pied-de-poule del 1995, lontana dai red carpet, più vicina alla cassa di un supermercato). Certo, in questo caso i prezzi sono lontani dall'essere democratici, ma se non si ha bisogno di un vestito in seta rosa pallido con corpetto ricamato e piume sul finale, come il Christian Dior realizzato da Marc Bohan che ha indossato Kaitlyn Denver, giovane protagonista di Booksmart, agli scorsi Oscar, si può optare anche per un top di Emilio Pucci degli Anni 60 a 225 dollari, o una camicia in seta stampata di Emanuel Ungaro a 150 dollari.

E che le donne vogliano sentirsi speciali, con un pezzo unico, è una tendenza che adesso travalica i confini dell'abbigliamento casual, e si estende nel reame più impensabile, quello dell'universo di pizzi e merletti degli abiti da sposa. Con questo obiettivo nasce 1920, che propone pezzi con i quali immaginarsi correre su sentieri boschivi, bere del vino rosso, ballare al tramonto, ricalcando un immaginario scintillante, già scattato infinite volte da Bruce Weber. L'idea, snob il giusto, poteva venire solo ad una milanese (seppur acquisita, ma che della città ha subito inoculato il gusto per un minimalismo riservato eppure capace di farsi notare), Stefania Gentile. In quell'annata è racchiusa la data di nascita della nonna Grazia, e la decade di predilezione degli abiti da sposa presenti nel suo atelier, anche se ci sono modelli che arrivano sino agli Anni 50, e altri che sono riproduzioni sartoriali dei capi d'epoca, una sezione chiamata "Replica". Dagli abiti del 1910, in mussola di cotone decorata a mano con ricamo a filo di fiori e pizzo, dalla linea scivolata e già in odore di "età del jazz"a quelli del 1940, più sobri nelle scollature, ma tradotti su un broccato di seta e gonna a ruota, il rischio è che il desiderio di convolare a giuste nozze si faccia vivido anche nelle menti delle più recalcitranti single.

Infine, gli appassionati di contemporary vintage, alla ricerca del pezzo unico – ma chissà poi dove lo si potrà sfoggiare – si ritrovano su Byronesque vintage, per emozionarsi di fronte al reggiseno a cono dell'era Tom Ford da Gucci, nel 2001, il corsetto in velluto di Vivienne Westwood degli Anni 90, la cinta con maxi placca metallica di Helmut Lang del 2004, o la collana di Martin Margiela del 1999, che ricorda un cartellino delle istruzioni di lavaggio, in formato xxl. Per i visionari, c'è anche la sezione "future vintage", perché «chi conosce il passato della moda, può anche immaginarne il futuro», con suggerimenti sugli investimenti da fare ora. Alcuni esempi? Ovviamente la prima collezione di Prada frutto della co-direzione creativa tra Raf Simons e Miuccia Prada, la prima collezione donna di Raf Simons, Balenciaga e Rick Owens, capace di resistere agli anni, e alle tendenze che si avvicendano. Nomi del futuro? Matty Bovan, Richard Malone, Charles Jeffrey, Bradley Sharpe per via " delle maison nelle quali arriveranno. E perché stiamo scegliendo di credere che in futuro, saranno di nuovo i creativi ad avere il comando. Fin quando, ovviamente, non lo avranno più". Comunque vada, quel che è certo è che anche allora, il vintage continuerà a raccogliere consensi, e molto probabilmente, sarà passato da eccezione a norma.