"Perché i grandi brand stanno investendo nelle start up incentrate sulla sostenibilità?" si chiede il Business of Fashion in un pezzo dallo stesso titolo, esaminando le mosse di diversi interlocutori prominenti del fashion system, da H&M a Chanel. Se le riflessioni sul riscaldamento climatico degli ultimi 12 mesi, gli incendi in California e Australia, hanno costretto i brand a rivedere le loro politiche in materia di inquinamento, sperpero ed eccessivo consumo delle risorse, il cambiamento però era già in atto da diversi anni. Le start-up – oggi non più considerabili tali, in quanto beneficiarie di sostanziosi finanziamenti da parte di investitori privati, fondi, o maison – necessitano di tempi lunghi per passare dall'idea, alla pratica, validare la qualità del prodotto finale, che, idealmente, non dovrebbe differire di molto da quello originale al quale si vuole sostituire, come nel caso della pelle o della seta, e garantirne una produzione consistente, che possa accontentare i grandi marchi. H&M, ad esempio, aveva già investito nel 2017 in Renewcell – tecnologia che trasforma le vecchie t-shirt in cotone o abiti realizzati in fibre naturali in nuovo filato, il Circulose, da poter riutilizzare per realizzare altri capi, come già successo con i jeans di Levi's – e ha di recente annunciato, come ha detto al BOF Erik Karlsson, un manager di H&M Co:Lab. che pianifica di raddoppiare il suo impegno, aggiungendovi 80 milioni di corone svedesi, circa 9,3 milioni di dollari.

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Ad agosto, invece, Ralph Lauren ha acquisito una quota di minoranza in Natural Fiber Welding, start-up il cui obiettivo è migliorare la qualità del cotone riciclato, mentre Chanel ha fatto lo stesso a giugno 2019 con Evolved by Nature, piattaforma che utilizza le proteine della seta e l'acqua per creare lenzuola, activewear, creme per il viso, sostituendosi ad agenti chimici ben più tossici. «La pandemia ha visto un cambio del sistema valoriale, sia per i consumatori che per le aziende» ha spiegato al Bof Caroline Brown, managing director da Closed LoopPartners, società d'investimento newyorchese concentrata su aziende dedite alla promozione dell'economia circolare. «Direi che, al momento, l'interesse dei brand, è più alto che mai». Se le valutazioni economiche però accertano che, al momento, pur con una buona volontà da parte dei brand, quegli investimenti non sono ancora abbastanza – Crunchbase sostiene che, secondo le informazioni ad oggi di dominio pubblico, i brand investono in questi progetti al massimo 10 milioni di dollari, mentre, secondo il report di gennaio 2020 del Boston Consulting Group, trasformare davvero l'industria per fermare il cambiamento climatico richiederebbe dai 20 ai 30 miliardi all'anno – quali sono le principali novità alle quali ci abitueremo presto, nell'armadio?

Ad aver suscitato l'interesse di Stella McCartney c'è la Microsilk, seta realizzata in laboratorio, replicando il DNA di quella prodotta dai ragni "Corteccia di Darwin", capaci di produrre sette varietà diverse del tessuto: la più resistente è risultata essere la Dragline, quella che tessono quando devono calarsi dalle altezze della loro tela, e attaccare una preda. Se il processo classico di realizzazione della seta richiede l'utilizzo del Bombice del gelso, la falena conosciuta come il baco da seta, che, al fine di recuperare il filo intonso, deve essere sommerso in acqua bollente, uccidendo l'animale, in questo caso lo studio di questo ragno ha permesso a genetisti e microbiologi di replicare la sequenza del dna in laboratorio, e di ricrearne la proteina alla base. Messa poi a fermentare in un lievito – un processo simile a quello della creazione della birra – la proteina così nutrita si tramuta in seta, uguale in tutto e per tutto a quella originale. Un modus operandi che avevano già scoperto nel 2014, ma che ha richiesto diversi anni per perfezionarsi (agli inizi, dopo il lavaggio, i capi prodotti in Microsilk si restringevano del 40%) e che Stella McCartney adottò per produrre inizialmente un vestito, che la curatrice del dipartimento di Architettura e Design del Moma di New York, Paola Antonelli inserì nella mostra del 2017 "Is fashion modern?". Oggi il Microsilk è parte dei tessuti utilizzati dal brand, tanto che, per la sua partnership con Adidas, McCartney vi ha realizzato un completo da tennis nel 2019. «Le quantità nelle quali producono le maison non sono paragonabili ai volumi del fast fashion, e quindi non abbiamo scuse per non usarlo» spiega la designer a Dana Thomas, nel libro Fashionopolis: the price of Fast fashion and the future of clothes.

Ed è firmata sempre da Bolt Threads, l'azienda dietro l'invenzione del Microsilk, l'idea di Mylo, materiale simile alla pelle e però ricavato dal micelio, cioè la struttura alle radici dei funghi. Compresso, tinto e conciato – essendo un organismo vivente, è soggetto ovviamente al processo di decomposizione, che con la concia, viene fermato – si tramuta in un'alternativa valida alla pelle, con la stessa consistenza e texture. Ovviamente, sempre Stella McCartney ha da subito deciso di utilizzarlo per le sue Falabella, presentate in anteprima alla mostra Fashioned from Nature, al Victoria & Albert Museum di Londra. A metà 2018, Bolt Threads aveva già raccolto 213 milioni di dollari di finanziamenti – tra di loro quelli dell' ex Ceo di Google Eric Schimdt e il co-fondatore di Paypal Peter Thiel – venendo valutata 700 milioni di dollari. Ad investire, tra gli altri, anche il gigante dell'activewear americano, Lululemon.

A guadagnare interesse è anche il cashmere rigenerato, creato con i materiali di scarto del processo di produzione: il motivo qui è legato al disastro ambientale di cui poco si parla, e che sta consumandosi in Mongolia, una volta paese legato al blocco comunista e oggi dedito ad un'economia molto più liberale e aggressiva. Se il cashmere era costoso perché raro (fare un maglione in questo tessuto richiede la tosatura di quattro pecore), quando il paese ha notato l'interesse nel prodotto, circa negli Anni 90, ha cominciato a produrne anche di minore qualità, in quantità maggiore, adattandosi in anticipo alle regole del fast fashion. Di conseguenza, il numero degli animali è quadruplicato dai 5 milioni del 1990 ai 21 di oggi. Di conseguenza, nel 2017, il 70% dei pascoli del paese, era già soggetto alla desertificazione. Se le tendenze non saranno invertite, entro il 2025 in Mongolia ci saranno 44 milioni di pecore, e probabilmente, neanche un filo d'erba da brucare. Per questo il cashmere rigenerato non sembra un'alternativa eco, tanto quanto l'unica soluzione possibile, e anche quella che impatta sull'ambiente il 92% in meno rispetto alla fibra vergine. Il futuro, insomma, è alle porte: e i maggiori brand, compreso H&M, il cui obiettivo dichiarato è quello di divenire circolari al 100%, sembrano volersi attrezzare per l'occasione.