Mongolia: delle steppe sterminate e dei pastori nomadi che da generazioni vivono dell’allevamento. E un animale, la capra cashmere, che produce grazie al suo vello una delle fibre tessili più pregiate al mondo: il cashmere. Oggi, per i suoi 3.17 milioni di abitanti ci sono oltre 27 milioni di capre, queste le cifre dell’UNDP sulla Mongolia, il secondo principale paese produttore di cashmere (dopo la Cina).

Storicamente, la preziosa fibra è sempre stata associata al mercato del lusso, già nel 18esimo secolo fonti ne riportano l’esportazione per i paesi occidentali, dove gli scialli ricoprono le spalle di nobili inglesi e francesi. Ma da una decina di anni, si riporta un incremento esponenziale della produzione per soddisfare un sempre più goloso mercato cinese e, ugualmente, dei grossi marchi della fast fashion che si sono appropriati della materia per alcuni capi delle loro collezioni invernali. Quest’aumento esponenziale, secondo la piattaforma Sustainable cashmere, lanciata dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, si è tradotto con un diretto impoverimento delle risorse, dell’ecosistema delle steppe e della qualità di vita degli allevatori. Un effetto perverso dovuto anche dal monopolio dei traders, oggi immancabili intermediari tra gli allevatori e gli acquirenti, che fissando un prezzo (basso) obbligano i pastori nomadi ad aumentare drasticamente il numero di capre dei loro greggi, provocando una conseguente desertificazione delle steppe per i troppi pascoli. È qui che l’immagine da cartolina si rovina.

Questa è una immaginepinterest
courtesy of Saldarini

A riassumere con parole semplici la situazione è Francesco Saldarini, CEO e “dream planner”, come si legge sul suo biglietto da visita, della Saldarini, un’impresa tutta italiana basata a Como, che nel cashmere sostenibile ci crede da diversi anni con il brevetto del Cashmere Flakes, un’imbottitura a base della preziosa fibra per piumini. “È il gatto che si morde la coda” – ci spiega – “Se tu guadagni pochissimo, e si parla di pochi centesimi al chilo, è evidente che per sopravvivere devi vendere più chili, e per vendere più chili devi avere più capre. Questo è l’effetto perverso di pagare poco i pastori. Ed avere più capre in Mongolia è possibile perché la terra è pubblica”. E così in una sola decina di anni, i greggi sono passati da 5 milioni a 27 milioni di capi circa (secondo le cifre dell’UNDP). Provocando un effetto perverso sull’ecosistema perché “la capra cashmere” continua l’imprenditore comasco “addenta l’erba e ne strappa le radici, e in terreni poveri d’acqua (come quelli della steppa) la natura ha difficoltà a rigenerarsi”. Oggi gli stessi allevatori nomadi ne hanno preso coscienza anche perché “c’è un dato oggettivo”, continua Saldarini, “alla crescita esponenziale delle capre si è aggiunto anche un drammatico cambiamento del clima negli ultimi 10-15 anni”. L’erosione e la degradazione del terreno durante la stagione delle piogge comporta un effetto domino sulla salute degli animali stessi che “non riescono più a nutrirsi come dovrebbero e quando d’inverno e le temperature precipitano, anche fino ai -40°, non sono abbastanza forti per sopravvivere”. Per Saldarini, non fa dubbio, l’unico modo di spezzare questo cerchio vizioso è “pagare il giusto prezzo ai pastori per incentivarli a ridurre il numero delle greggi. E si può fare accorciando la catena filiare di approvvigionamento del cashmere, cioè quando il sindacato dei pastori mongoli diventa il tuo interlocutore unico, senza passare dai traders.” Un contatto diretto, quello con gli allevatori nomadi, che si è potuto creare grazie a un progetto l’Agenzia svizzera per lo sviluppo e la cooperazione: il Green Gold Project.

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Bisogna fare un passo indietro nel 2005, quando il Green Gold Project aiuta i pastori nomadi a formare un consorzio di allevatori, una cooperativa per unire le forze. Nel 2010, il progetto è ben impiantato con tutto un disciplinare da rispettare per la rotazione dei pascoli, e salvaguardare in questo modo la desertificazione delle steppe, accompagnato da controlli scientifici rigorosi. Il risultato è evidente: in 8 anni sono stati rigenerati 5 milioni di ettari di pascoli. Inoltre, il progetto di cooperazione svizzera, terminato nel 2020, ha permesso le cooperative di pastori di raggrupparsi in un sindacato ufficiale, la National Federation of Pasture Users Group of herders. È con questo sindacato “che comprende 86 mila nuclei familiari, cioè più di 1550 cooperative di allevatori e rappresenta il 70% dei pastori mongoli” che Saldarini ha contrattato “una joint venture, di fronte a un notaio”, per fare arrivare il cashmere sostenibile alle aziende europee che lo lavorano, principalmente “nel Biellese e in Inghilterra”. Il sindacato risponde a delle norme sostenibili, le “responsible nomad practices” protocollate con l’agenzia svizzera. “Lo scopo” – continua Francesco – “è aiutarli a creare uno sbocco sul mercato del loro cashmere, allevato in maniera nomade secondo tradizioni millenarie, uno sbocco diretto, anziché distribuirlo attraverso i traders cinesi, come oggi accade per il 94% della produzione nazionale”. Questo modello di business, un win-win come piacerebbe dire agli Americani, permetterà all’acquirente europeo di comprare direttamente in Mongolia la materia allo stesso prezzo che oggi paga ai traders cinesi e ai pastori mongoli di ottenere un 15-20% di guadagno supplementare che “per loro fa la differenza”. Il progetto, però, non si ferma qui. A termine la collaborazione permetterà grazie alla tecnologia block-chain una tracciabilità completa e si potrà risalire, grazie al QR-code del prodotto finito, fino alla provenienza della materia, la famiglia che ha allevato le capre, la loro localizzazione. Permettendo anche al consumatore del maglione o della sciarpa di partecipare alla salvaguardia dell’Oro verde della Mongolia.

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