Scusate il linguaggio da trivio: secondo noi la pandemia ha reso la moda meno paracula. Non fraintendete, mica siam qui per frombolare insulti o contumelie. Anzi: vorremmo assembrare, se non lodi sperticate, almeno complimenti schietti e variegati ossequi per l’abbandono - si spera non momentaneo - dell’estetica «ho messo due loghi in più che faccio, lascio?» «lasci, lasci», in era pre-virale consuetudine praticata fino alla noia, abitudine sbadigliata, assuefazione al fatturato facile. Quello che veniva traghettato dalle influencer cui rifilare l’ennesima t-shirt o le sneakers brutte-ma-belle: ben felici di aiutare a smerciare magno pretio le solite varianti sul solito tema (che comunque vendono ancora, eccome se vendono). Altro che La società dello spettacolo profetizzata da Guy Debord nel ’67, saggio totale e totalizzante in cui il filosofo ci avvertiva del dominio venturo delle immagini mediatiche sulla realtà: cosa che avrebbe contagiato ogni aspetto della nostra vita, sempre più tendente alle virtù dell’apparire che dell’essere. Ora che lo spettacolo è diventato l’unico mezzo di comunicazione e viviamo tra DaD (didattica a distanza) e MaD (moda a distanza), c’è un urto sempre maggiore tra feticizzazione della merce e suo reale consumo. Perché la crisi – sanitaria, economica, culturale, emotiva – ci ha trasformato e con noi, ha modificato anche la comunicazione dei beni. Oplà, sembra ci sia un rovesciamento dei ruoli: non siamo più noi lo spettacolo, ma è lo spettacolo a doverci sedurre, secondo registri sempre più affinati e personalizzati. Ormai si va creando una sorta d’iconografia in stretto legame con ogni maison, vedi il sodalizio tra Maria Grazia Chiuri per Dior con Matteo Garrone, o quello di Valentino con Nick Knight, anche se più altalenante.

Viviamo in un’epoca che sembra pensata da un Escher in ottima forma:

siamo consumatori sottomessi alle leggi di mercato di un mondo globale, a sua volta assoggettato da un virus che lo tiene in scacco. Difficile pensare di tornare a vendere un tanto alla paillette. Ma nello stesso tempo è ancora più difficile (e dannoso) fermarsi in attesa di un momento storico più adulto, ma soprattutto più vaccinato. Ed ecco che la paraculaggine finora vincente, finalmente perde o mostra le sue crepe: i designer sono costretti a restituire la moda a se stessa, se così si può dire. Cioè essere un megadispositivo culturale che produca senso oltre che prodotti, trasmetta messaggi contemporanei oltre che stanchi manufatti. E in questo senso, le visualizzazioni delle sfilate d’alta moda – complice il coprifuoco o il binge-watching di Bridgerton o The Undoing che ce le ha fatte esaurire in poche sere, chi lo sa – conoscono numeri da finale di Campionato di calcio. Con persone che non avevano mai visto una sfilata in vita loro, dal mio commercialista all’amica avvocata, si sono ritrovati a discettare sul défilé di Valentino, sul cortometraggio di Anton Corbijn per Chanel, sulla performance di Fendi (esordio come direttore creativo di Kim Jones, pur ottimo nella moda maschile) dove sfilavano dive e divine, tamponate, al Palais Brongniart di Parigi. Cioè: persino nell’empireo più esclusivo ed elitario dell’arte vestimentaria, l’alta moda su misura destinata a pochissime elette del vestire destinato a un élite dai capitali illimitati che forse non avrà occasione di indossarli (ma Giambattista Valli, il designer che a ogni collezione fa brindare i fabbricanti di tulle per i suoi abiti dove se ne arricciano non chilometri ma autostrade, dice di avere tante clienti asiatiche che per il compleanno con sei amiche infileranno le sue crinoline gigantesche che in effetti assicurano il distanziamento sociale) si è creato interesse, dibattito, discussione. Perfino qualche screzio. Ma latitavano i soliti commenti, chi se li metterà mai, bellissimi ma troppo cari, roba per capitalisti sfruttatori, insensate frivolezze. No.

È il segnale che quando la moda interpreta anche nelle proposte più “irraggiungibili” la profonda metamorfosi dei rapporti sociali e prende consapevolezza dell’importanza della sua funzione simbolica e pratica – cioè dà forma al famigerato Zeitgeist – allora sì, coinvolge tutti. Non è un caso che, parlando in generale, le due grandi direttrici su cui hanno eseguito il loro lavoro di progettazione (che richiede un’autentica e sentita riflessione sulle contingenze) siano state il surrealismo e il realismo. Due correnti culturali che potrebbero sembrare in perfetta collisione, ma che in realtà rispecchiano perfettamente la bizzarra e sghemba situazione in cui stiamo hic et nunc, e ancora per un po’, temiamo. È più surreale l’abito dal seno con incluso neonato da allattare, tutti e due in metallo dorato di Daniel Roseberry per Schiaparelli (en passant, Roseberry ha creato l’abito bicolore con grande spilla a forma di colomba per Lady Gaga all’insediamento di Biden), o l’essere prigionieri in casa – se si è fortunati da averla, una casa - per evitare infezioni? È più surreale l’impianto zigomatico sul viso di Demi Moore, modella d’eccezione per Fendi, o il fatto che per megalomania di un singolo venga fatto cadere un governo in piena pandemia? È più surreale che gli stadi siano aperti e che i cinema, teatri e musei no, oppure le zeppe altissime in pelle specchiata oro, come il make-up delle modelle, di Pierpaolo Piccioli per Valentino in pieno innamoramento con lo styling da Rocky Horror Picture Show (ehi, è un complimento)? È più surreale che una ragazzina muoia per una challenge su TikTok o il corteo nuziale da paesino di provincia di Virginie Viard per Chanel?

haute couturepinterest
Courtesy of Press Office//LAUNCHMETRICS SPOTLIGHT



Abitiamo nella «seduzione del confine, di quell’essere e non essere» di cui parla Georg Simmel nel saggio La moda, scritto nel 1885 eppure così attuale: siamo ambivalenti, scissi, dialettici perfino con noi stessi. Concluso il ruolo di spacciatori d’illusioni, i grandi direttori creativi hanno rimesso al centro della conversazione il corpo: un corpo reale, concreto, ma dalla sessualità fluida, indistinta felicemente indecisa (vedi l’episodio “ponte” di Euphoria su Amazon, dedicato allo splendido personaggio di Jules)? È un corpo che può non avere sesso ma ha tre dimensioni e deve essere adornato, lusingato, protetto ma non cancellato o represso. La richiesta costante è uscire dalle forme costrittive, e non per camuffare peccati di gola, ma perché è l’idea stessa di coercizione fisica che rifiutiamo con fermezza.

valentinopinterest
Courtesy Valentino

Significativo, in questo senso, la presenza della cappa in quasi tutte le collezioni: da quella delle papesse dei Tarocchi di Dior a quelle traforate di Valentino (le cui lavorazioni ricordano un altro stilista italiano, più conosciuto all’estero che in patria, Maurizio Galante), fino alle solenni cupole di tessuto di Kim Jones per Fendi, la cui evocazione femminile ci ha riportato a quella impalpabile e resilientissima silhouette elaborata da Romeo Gigli negli anni Novanta, a cominciare dai gioielli da imperatrice bizantina. Virginie Viard, l’attuale direttrice creativa, ha riportato Chanel alle radici della storia e dell’estetica di Coco, fatta di nobilissima semplicità, di capi confortevoli, di praticità arricchita da invisibili dettagli preziosissimi. Questi esercizi di stile cuciti da mani impagabili (anzi, pagabilissime e spero anche retribuite molto bene) possano costituire ispirazione per quello che sarà lo schema estetico e anche commerciale del prêt-à-porter in boutique o sugli e-shop online. A patto che, al pari di “icona” e “iconico” venga bandito il termine “codice”: non se ne può davvero più di note stampa che parlano di “rilettura dei codici” o “aggiornamento dei codici”. Ogni maison ha un suo linguaggio, certo. E deve aggiornarlo esattamente come quello parlato. Personalmente, non ci occuperemo più di codici a meno non siano il CAP cittadino o quello di Hammurabi. Tralasciando quello penale, perché siamo tutti più buoni. E meno paraculi (credeteci).

preview for Chanel Haute Couture Primavera Estate 2021