“Un percorso a tentoni, una passeggiata sui cornicioni, una gara di velocità con uno zaino di mattoni sulle spalle… L’avventura più bella della mia vita”. Chiari e scuri, come una montagna di jeans cui dare nuova vita, sono le premesse da cui Fabrizio Consoli è partito per cucire insieme un progetto orgoglio del made in Italy, Blue of a Kind. Un brand di denim sostenibile, molto più di un brand di denim sostenibile. Dal bisogno di riconsiderare l'evoluzione, i processi produttivi e l'impatto ambientale dell’industria tessile (ri)nasce quel bouquet di collezioni di jeans devote all’adagio della meccanica classica "nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Qui, però, la fisica c’entra relativamente, a contare, sono il cuore, la passione, l’impegno, la ricerca costante del brand italiano che si dedica a riprogettare jeans vintage, riscoprendoli con processi sostenibili e cruelty-free. “Ogni capo viene smontato, ritagliato e riconfezionato, diventando unico”, racconta il founder e CEO del brand. “Stiamo cercando di portare una visione diversa nel mondo della moda: creare del bello ma senza far male all’ambiente. È una missione tanto professionale e sociale quanto umana, essere imprenditore oggi è complesso, la quantità di variabili di un’operazione del genere è al limite dell’ingestibile. Avere la possibilità di cambiare le cose, però, nel nostro piccolo, è una soddisfazione impareggiabile”.

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courtesy Blue of a Kind

Stiamo parlando da una manciata di minuti e hai già citato più volte il concetto di memoria del denim, cosa significa esattamente?
È un po’ il nostro mantra. Di fatto sono tutte quelle parti di denim più scure di cui è composto il jeans e che scopri letteralmente quando lo scuci e lo rimonti, sono tutte quelle aree dove il tempo non ha operato e mostrano il colore originario del jeans. A noi ricorda il fascino dell’imperfezione, l’unicità e la bellezza che spesso si trova proprio dove non stai guardando.

La nascita del brand (sì, c’è un aneddoto)
Era il 2016, ero a pranzo con un amico, il mio futuro socio, era un periodo in cui si iniziava a parlare di sostenibilità nella moda sempre più frequentemente. Da lì, la domanda, buttata giù un po’ per scherzo tra una forchettata e l’altra: quale sarà il capo più sostenibile in assoluto? La risposta: quello che già esiste. Da quel momento in poi la battuta è diventata un’idea, poi un progetto concreto, recuperare jeans dismessi e trasformarli ex novo. Che non vuol dire ricamarci su due patch e due toppe, ma smontarli e ricostruirli da zero.

Dove recuperate i jeans?
Da centri di smaltimento, stock o scarti industriali… Diciamo che andare a recuperarli è già un grande atto d’amore, ecco. Dopodiché li laviamo, li analizziamo, ne capiamo il potenziale e li scuciamo interamente. Estrapoliamo l’essenza di un jeans e diamo nuovo valore a tutte le sue memorie, abrasioni, dettagli, ricami.

Chi sono le persone con cui lavori?
Paolo, mio socio storico e grande esperto di digital marketing e branding. Andrea, un 23enne talentuosissimo che cura la parte di ricerca e sviluppo. Federico, lo stilista, il nostro punto fermo in azienda.

È più facile o più difficile emergere per un indie brand oggi?
“Un po’ e un po’. È più facile perché oggi i social e la comunicazione liquida aiutano a esprimerti e trovare la tua audience in autonomia e senza investire per forza in pubblicità, in passato l’unica via era comparire in tv o su una rivista. Dall’altro lato, c’è molto ‘rumore’ su quegli stessi social, c’è sì un’infinità di possibilità di farti notare ma anche un’infinità di brand che come te provano a emergere”.

Non c’è un segreto ma…
“Devi avere un messaggio, forte e chiaro. Devi avere uno stile, forte e chiaro. Se una delle due cose manca, allora c’è un problema. ‘È possibile fare le cose diversamente’ è il messaggio che vogliamo portare avanti con Blue of a Kind. Penso sia fondamentale per un brand farsi portatore di un’ideologia, di una fede attorno cui costruire una community”.

Qual è la community di clienti/amatori del brand che desideri?
“Persone che credono veramente in quello in cui crediamo noi. Investire sulla sostenibilità e, allo stesso tempo, apprezzare il lato etico e estetico dei capi”.

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Quali sono i rischi nel lanciare un brand di moda sostenibile?
“La ‘concorrenza apparente’. Tutti dicono di essere sostenibili, in pochi lo sono per davvero. Soprattutto le aziende più grosse, è molto difficile per loro rivoluzionare i sistemi di produzione di punto in bianco, ci vuole molto tempo. In futuro, però, la sostenibilità non sarà più un tema di cui stupirsi, sarà l’ingrediente fondamentale, ovvio, di cui non ci preoccuperemo o di cui non chiederemo più. Un po’ come è stato per l’industria automobilistica, se oggi comprassi una macchina, chiederesti mai se ha l’aria condizionata? Decenni fa lo avresti fatto, oggi lo dai per scontato”.

Genderless, seasonless… Perché nel 2021 la moda ha ancora bisogno di sottolineare questi concetti?
“Perché anche questi concetti vanno di moda. Lavoriamo in un’industria che ogni tanto vive di repliche di se stessa. Per questo ogni tanto qualcuno, più illuminato degli altri, ‘si sveglia’ e decide di rettificare o andare contro il sistema. Che siano le collezioni Cruise o le stagioni o i generi. In generale, finché ci sarà qualcuno che si sentirà discriminato, ci sarà qualcun altro disposto a battere i piedi. Il denim ha la fortuna di essere genderless e seasonless per antonomasia, però.

Uno spoiler sui progetti futuri.
“Stiamo lavorando a capi realizzati a partire da tessuti leftlover tinti con un metodo di colorazione particolare, il recycrom, una vera e propria polvere di ex abiti. Ma ci piacerebbe moltissimo anche iniziare a produrre maglioni, smontandone di vecchi o recuperando scarti di lana. Insomma, il denim rimane il nostro primo grande amore, la divisa della gioventù, il capo con cui si sono fatte rivoluzioni, ma abbiamo un debole per il “guardare oltre…”.

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