Se le vertiginose scarpe platform Valentino haute couture ticchettano, sui pavimenti decorati di Galleria Colonna, non è dato sapere – ogni rumore estraneo alla narrazione è ovviamente coperto dalla colonna sonora pensata da Robert Del Naja, partner in crime (per l'occasione) di Pierpaolo Piccioli, e mente dietro alla band dei Massive Attack. Certo è che, per l'occasione, le scarpe sembravano leggiadri calzari sui quali Maria Carla e le altre si issavano, regalando ancora più ieratica autorevolezza a pantaloni in cady di seta fucsia, cappe traforate, top in lurex, cappotti in cashmere bouclé e gonne in crêpe di seta. Lo show, un momento definito dallo stesso Pierpaolo Piccioli come una celebrazione che rimette al centro dello storytelling la couture è stato però già capace di rendere virale l'accessorio che meno ci si aspettava di vedere nell'empireo del sogno dell'Alta Moda: il platform.

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courtesy press office Valentino
Gli stivali dell’haute couture di Valentino

Se The Cut ne ha salutato l'esordio in passerella con un articolo intitolato Okay, these are not Birkenstock, con riferimento alle scarpe divenute fedeli alleate dei mesi di lockdown, dalle quali non ci si riesce più a sfilare, la storia delle scarpe platform non è assolutamente nuova, ma il primo ingresso sulla scena, queste calzature prive di timidezza, lo hanno fatto molto tempo fa, già nell'Antica Grecia, quando venivano usate nelle agorà dove si tenevano le rappresentazioni teatrali, per innalzare – lontano da sofisticatezze metaforiche – i personaggi più importanti della rappresentazione, rispetto a quelli che avevano ruoli secondari. La loro caratteristica, l'altezza, era però usata sia per issare i personaggi che le indossavano su un livello morale superiore – come le Paduka indiane, usate dagli appartenenti alle classi sociali più alte, spesso realizzate in legno, con intricati motivi a forma di animale, e decorate di perle – che per funzioni squisitamente più pratiche, come quando nel 18esimo secolo in Inghilterra, i "pattens" servivano principalmente ad evitare fango e letame che costellavano le strade della città. A ispirare la loro onomastica fu spesso però la sinfonia uditiva che producevano: in Libano, nel 14esimo secolo, si chiamavano Kabkabs – avevano suola in legno decorata e lacci in velluto – a ricordare il suono che producevano quando si posavano, ritmicamente, sul marmo, mentre, per la stessa filosofia, nel Giappone del 18esimo secolo vennero battezzate Okobo, e sfoggiate dalle geishe durante il periodo di apprendistato. No gender, nell'antica Cina erano usate anche dagli uomini: simili a degli stivali, costruiti uno strato di tessuto bianco sopra l'altro, sono indossate anche oggi, nelle rappresentazioni teatrali della Peking opera, la forma di teatro classica del paese orientale.

carmen miranda 1909 1955, portuguese born brazilian singer, actress and dancer, wearing a long gold sequuinned split skirt, with a matching bra top and various gold accoutrements, including a gold headdress, with her outstretched either side of her, circa 1950 photo by silver screen collectiongetty imagespinterest
Silver Screen Collection//Getty Images
Carmen Miranda, una delle più famose amanti e collezioniste, di platform

Nel secolo scorso, però, la prima a riportare le platform sotto le luci dei riflettori, in ogni senso, fu la divina Marlene Dietrich, che le sue le faceva realizzare da Moshe Kimel, un ebreo riparato a Los Angeles, che nel 1939 aprì nella città degli Angeli la sua azienda. Nel 1938, solo un anno prima, Salvatore Ferragamo aveva prototipato la sua famosa Rainbow shoe, realizzata con l'inventiva di un uomo che doveva pensare a materiali alternativi, viste le restrizioni della seconda guerra mondiale: se classicamente il tacco era realizzato in pelle, il fondatore della maison pensò a un mix di legno e sughero. Le antesignane delle platform, che ancora oggi appaiono estremamente moderne, vennero ribattezzate così in onore dell'attrice Judy Garland, che negli stessi anni, nel Mago di Oz, cantava "Somewhere over the rainbow". Contemporaneamente, a divenirne una collezionista fu Carmen Miranda, che le usava con scioltezza durante tutte le sue performance danzerecce: alta solo 1,53, guadagnava con le sue platform circa 20 cm. Ispirate ai clogs portoghesi, le sue furono realizzate dal calzolaio brasiliano O. Rovinetti, partendo da un modello di calzature ortopediche. In seguito lavorò anche con Salvatore Ferragamo, per farsi realizzare una platform interamente decorata da specchietti metallici che creavano effetto mosaico. Abbandonate per 30 anni, furono riprese all'esordio degli anni della disco, i Seventies, dove a indossarle erano donne e ragazze molto giovani, per distinguersi sulla pista da ballo. Nel 1972 furono i signori del glam rock David Bowie e David Johanson dei New York Dolls, a farsi realizzare le loro, custom-made, da Carole Basetta, con il suo atelier sulla Bowery, la stessa strada dove si trovava il Sacro Graal delle esibizioni punk, il CBGB. Di nuovo, con la solita ciclicità della moda, che, allo scoccare dei 20 anni, ripropone e rielabora i trend, nei primi Anni 90 sarà Vivienne Westwood a portarli in passerella, facendo svettare la giovane Naomi Campbell, anche se entreranno ufficialmente nella pop culture tramutandosi in sneakers con platform, indossate dalle Spice Girls (le loro erano state firmate dal brand Buffalo).

milan, italy   september 21 yoyo cao is seen wearing jacket with print, black mini bag, high plateau heels outside the ferragamo show during milan fashion week springsummer 2020 on september 21, 2019 in milan, italy photo by christian vieriggetty imagespinterest
Christian Vierig//Getty Images
La versione moderna delle originarie platform di Salvatore Ferragamo

Amate dalle celebrities, Lady Gaga ed Elton John su tutti – Rocketman ne aveva un'intera collezione poi venduta all'asta – a farle rientrare nella sfera d'interesse dell'alta moda è Tom Ford durante i suoi anni da Yves Saint Laurent: è del 2004 il lancio del Tribute, sandalo in pelle o vernice a più listini e allacciatura con fibbia, che divenne il simbolo della seduzione secondo il brand di Monsieur Yves. Ancora oggi presenti nella collezione del brand – seppur con un posto molto più marginale, vista la differenza con la direzione creativa di Anthony Vaccarello, segnarono un'epoca: Victoria Beckham, non più icona pop ma neo-imprenditrice con il suo brand eponimo, dall'allure minimalista, ne sfoggiò un paio (le sue erano delle Daffodils di Christian Loboutin) addirittura al royal wedding di William e Kate, mentre il Guardian le bollava, con la causticità inglese, "le 4x4 delle calzature". E in effetti, negli anni della necessaria abbronzatura arancio raggiunta nei centri di bellezza molto attenti al colore, e poco alle radiazioni, dei pantaloni a vita bassa e delle felpe in ciniglia Juicy Couture, il platform, in qualunque sua declinazione, appariva scevro di qualunque tipo di sottotesto simbolico, e pura armatura da estremità inferiore. La potenza, al posto della grazia. Abbandonate del tutto nell'era concettuale imposta dall'estetica "celiniana" di Phoebe Philo – ma, a dire il vero, l'abbandono delle altezze ha coinvolto democraticamente ogni tipologia di scarpa col tacco – tornano oggi sulla scena di uno dei couturier più noti per la sofisticata prossemica della quale veste le sue donne. E se è troppo presto per avere tra le mani delle traduzioni ready-to-wear di quei manufatti dorati, fucsia, ma anche in toni neutrali – come nei sandali con allacciatura alla caviglia di Valentino – su Vestiaire Collective sono in vendita dei tribute vintage di Yves Saint Laurent, in vernice viola, a 316 euro. Più variegata la scelta su Ebay, piattaforma abbandonata in massa dai modaioli in favore dei più glamour Vestiaire e Net-a-porter, e che proprio per quello, oggi, trabocca di chicche per gli appassionati: non solo i Tribute in un arcobaleno di varianti e materiali, con prezzi che vanno dai 200 ai 500 euro, ma anche un modello da collezione di Gucci con il classico morsetto, in pelle, con il tacco grosso – abbinato alla platform – decorato da perle (a 1.050 euro). Destinate a rimanere invendute, o presto oggetto di un ratto, causato dalla follia collettiva ispirata da Pierpaolo Piccioli? Chissà. Nel frattempo, l'unico, oltre al couturier della maison romana, capace di rendere onore alle insospettabili qualità di eleganza delle platform, è stato il Bardo William Shakespeare, nell'Amleto, ambientato nel 15esimo secolo, periodo nel quale a Venezia, quelle scarpe si chiamavano chopine, e si distinguevano per altezze pantagrueliche, che arrivavano sino ai 50 cm, con alcuni reperti disponibili al museo cittadino Correr. Descrivendo Ofelia, la definisce "più vicina al cielo...dall'altezza di una chopina". Non più donna, non ancora divinità pagana, ma sicuramente degna di adorazione. Come ogni donna vorrebbe sentirsi, a prescindere dalla calzatura.