«Ce n’est qu’un début», non è che un inizio: lo slogan degli studenti del Maggio Francese nel ’68 sembra adattarsi alla prima giornata dell’italiana Fashion Week (ormai un modo di dire, una metonimia: gli ultimi, pochi nomi in calendario presenteranno le loro collezioni il primo marzo) che ha perlomeno il merito di essersi convertita senza troppi mugugni alle presentazioni digitali e ad altre su appuntamento. 61 sfilate, quasi tutte online e 60 presentazioni cui si può presenziare in pochi alla volta e si disinfetta tutto in 15 minuti prima della successiva tornata di sparuti ospiti: un suggerimento da dare anche ai supermercati o ai trasporti pubblici. Una mole di eventi tale da movimentare speranze di vendita, anche se ieri Carlo Capasa, Presidente della Camera della Moda Italiana ha detto che presenterà al Governo, la prossima settimana, un piano del Recovery fund della moda: «Chiederemo che il settore venga considerato un'industria strategica». Ma torniamo agli esordi: ce n’è una porzione ottima e abbondante in questa tornata per l’Autunno-Inverno 2021/22 e ci si chiede davvero se necessitassimo di una pandemia per farli entrare nel programma ufficiale (risposta: sì).


La più attesa era la prima sfilata nel prêt-à-porter di Kim Jones come direttore creativo dell’abbigliamento femminile di Fendi, oltre a firmarne la linea couture, mentre Silvia Venturini Fendi resta a capo degli accessori e dell’abbigliamento maschile. «Non voglio somigliare assolutamente a Karl Lagerfeld», ha detto il designer inglese a WWD. E proclama dichiarazioni di continuità e di rispetto verso una dinastia dello stile, «soprattutto se dietro la porta dove c’è scritto un marchio, c’è una persona che lo usa come cognome». L’idea è di un “iperlusso sobrio”, un “palate cleanser”, come lo hanno definito alcuni critici americani. Una sinfonia di beige declinato in ogni nuance e il progetto di una moda pensata per uscire di casa, ma forse non di testa. Presentata come «un omaggio ai codici chiave della maison e alle donne che ne hanno custodito l'eredità», è una collezione in grado di glorificare le plutocrati anche attraverso un uso molto visibile di pellicce dalla maestosa opulenza, che – al momento in cui scriviamo – sta già sollevando parecchie proteste sui social. All’inizio, in effetti, lascia sbigottiti l’uso di un materiale così discusso, presentato sotto forma di visone tricottato evidente nel davanti dei mantelli con le maniche di cammello. Poi arriva la sorpresa: i capi più grandiosi sono realizzati con pelli riciclate, così come gli shearling: l’etica è salva, e anche il tributo alla lunga storia del marchio. Jones ha fatto ansiose ricerche negli archivi, da cui ha ricavato il motivo Karligraphy per decorare le borse, e la camicia in seta a righe “Pequin” si riannoda al periodo in cui Fendi s’impose nel mondo, i primi anni 70. Meravigliosi, come sempre, gli accessori e i gioielli, questi ultimi realizzati da Delfina Delettrez, figlia di Silvia Venturini.

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Fendi AI 21/22

Al netto di ogni polemica, è interessante notare come il fil rouge della giornata (tra gli stampati animalier del conciso e sempre contemporaneo Alessandro Dell’Acqua per n° 21; i motivi dei manti delle fiere già disegnati, nei giorni scorsi, in un altro debutto, quello di Fausto Puglisi, ora alla direzione creativa di Roberto Cavalli, voluti così fortemente da aver generato già decine di meme a tema “Flintstones”; la riproduzione di pellicce in cashmere, a cura di Brunello Cucinelli, in cappottoni pelosi dalle sospirose tonalità di cielo, pietra, perla) sia il richiamo furiosamente educato e composto alla riconciliazione con la Natura. Non solo come luogo esterno alle nostre case, ma come parte animale e irrazionale ch’entro ci rugge, avrebbe detto Foscolo. A differenza di Londra, dove il tratto elegiaco e struggente era il basso continuo delle presentazioni, nelle sfilate di Milano, sotto l’apparente quiete di una moda realista e austera (sorprendente, in questo senso, la collezione di Alberta Ferretti, priva di stampe e sostanzialmente monocolore eppure desiderabilissima, genere «mica stiamo a pettinare la bambole: vestiti, usciamo» o l’austero genderless del sempre più capace Daniele Calcaterra), c’è un senso di ribellione che serpeggia, zigzaga sottotraccia, come un moto di rabbia sedato da un pensiero che non riesce a tenerlo a bada. Si avverte come queste collezioni, totalmente ideate durante la pandemia, siano nate dal pensiero sulle espressioni “natura umana”, “animali”, “cultura”. Ed è a questa connessione che abbiamo perduto che si riallaccia anche l’altro esordio atteso della giornata, quello di Daniel Del Core. Ha voluto una sfilata fisica con pochissimi ospiti ma trasmessa in streaming in diretta dalla milanese Cittadella degli Archivi, trasfigurata in un laboratorio di asettica botanica verticale simile alle installazioni di fiori immersi nel silicone di Richard Quinn o alla trama di Little Joe (non perdetelo, è su Amazon Tv), fantahorror su una fitogenetista creatrice di un fiore che, se nutrito in maniera corretta e parlandoci regolarmente, ha il potere di regalare al proprietario la felicità assoluta.

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N21 A/I 2021/22
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Alberta Ferretti AI 2021/22

Tedesco di nascita e italiano d’adozione, Del Core ha un curriculum di tutto rispetto, disegnava gli abiti delle celebrity da Gucci. La sua collezione - dal gusto gelidamente spettacolare, debitore ad Alexander McQueen come al tailoring impeccabile degli anni Ottanta di Gianfranco Ferré e Thierry Mugler - si situa all’intersezione tra ready-to-wear e alta moda, ma anche all’intersezione tra un abbigliamento indossabile e uno che rasenta l’artificiosità nell’apparire originale a ogni costo. Il risultato lascia perplessi: sono abiti per affrontare la realtà, sia pure se si è ricchissime, o sono destinati a provocarci con la forza di un sogno inquieto? La flora immaginaria evocata nei cappelli a fungo o nell’abito da sera costruito come se congelasse la metamorfosi di una donna in pianta carnivora, secondo noi vorrebbe creare non l’oggetto del desiderio, ma lo stato del desiderio. Però, per carità, Ce n’est qu’un début, dicevamo. Anche lo slogan per intero sosteneva: “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”, “Non è che l’inizio, continuiamo a lottare”. Coraggio.

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