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A Milano sfila il femminilismo

Vestirsi di politica: è l'ultima tendenza. Sarà poi così giusto?

Di Antonio Mancinelli
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«Qui ci vorrebbe Robert Altman, neanche Pedro Almodóvar», mi sussurra un'amica al vero, grande evento che ha chiuso la fashion week milanese: la sontuosa messa in suffragio di Franca Sozzani (erroneamente chiamata “Carla” - che è la vivente e presente sorella - dall'arciprete Gianantonio Borgonovo, durante l'omelia). A poche ore dalla sfilata di Giorgio Armani - l'ultima in calendario - eccoci in fila in Duomo, tutti nerovestiti tra turisti sbigottiti, militi che perquisiscono, baci volanti, un tentativo di compostezza sventato da molte chiacchiere sottovoce. All'interno, siamo smistati come in una sfilata, - quelli con gli inviti numerati e quelli no, «Lei non ha l'ingresso vip? Che si metta in fila e rispetti il suo numero di panca!» - e invitati a disporci da sussiegose hostess, già catechizzate in precedenza a far rispettare gerarchie comprensibilissime in un défilé na non così urgenti per commemorare una morta.

Divisa tra autentico dispiacere e lo sconfinato presenzialismo dal «perché mi si noti», la ciurma della fashion people è una perfetta metafora delle sfilate viste finora, belle e inquiete, tormentate ed estatiche, che hanno messo al centro della loro poetica una nuova categoria: la politica. Con risultati a volte vincenti e a volte meno convincenti.

Come si era già visto a New York, l'endorsement a cause impegnate si porta molto e si candida a essere il perfetto accessorio per un guardaroba che giustifichi i (molti) soldi spesi per inalberare statement un po' antitutto, soprattutto antiTrump e antimaschi. Come nel memoriale per Franca Sozzani, c'è chi ci crede davvero e chi invece usa il “messaggio” per esibirsi come massimamente moderno: oh, anche alla notte degli Oscar la maggior parte dei discorsi erano venati di un (giustissimo) sentimento antipresidenziale.

Ammettiamolo: fare il fashion designer, di questi tempi, dev'essere difficilissimo. Se non proclami qualcosa contro ciò che succede nella società sembri sciocchino e insipido come uno champagne sgasato. Se invece strilli sui vestiti parole come “equality”, “love”, “peace”, “immigrant”, qualcuno ti accuserà che stampigli slogan più da corteo in piazza che non da prodotti destinati a plutocrati, soprattutto dell'est e dell'estremo est, a cui in non frega una cippa se, nel mondo, la dittatura sarà la nuova uniforme globale. Verrebbe da coniare un neologismo, proveniente da sciarade e incastri che neanche ne La settimana enigmistica.

Tipo: femminilismo.

È una parola che sottende l'indagine su cosa significhi essere una donna oggi, tra femminicidi, presidenti che berciano «Donne, vestitevi da donne!», violenze sparse a pioggia. Il femmilismo è quella cosa per cui Versace (che ci crede) disegna una signora di piglio con una collezione che non sbaglia un colpo e si candida a comporre un guardaroba di “Feminist Glamorous Power Suit” e spiace davvero che Donatella non ci abbia pensato prima: magari Hillary avrebbe potuto vincere. Il femminilismo è quella cosa per cui Angela Missoni (che ci crede), regala sia il “pussyhat” (il cappellino di lana rosa divenuto simbolo delle donne in marcia contro Trump e i suoi “Trumpettes”), sia una collezione memorabile per sveltezza, freschezza e forza d'animo: corroborata da colori vibranti, linee destinate non solo a taglie 38, un autentico istinto alla libertà e alla grazia, simboleggiate da una gigantografia del Monte Rosa sullo sfondo. Il femminilismo è quella cosa per cui si combatte in tutte le guerre, cominciando dalla guerra tra i sessi. Vedi l'inno ai Forties di Hollywood di Tomas Maier per Bottega Veneta: spalle segnate da ausiliaria deluxe per reggere il peso del mondo, lamé e strascichi, languidi decadentismi sartoriali da picnic sull'abisso, richiami ai vestiti delle Women di George Cukor e alla bella mutante di Blade Runner. Il femminilismo è quella cosa per cui Miuccia Prada, così sempre intelligente nel non usare mai e poi mai la parola “politica” o “femminismo”, manda in passerella una signora che in qualche modo mette su di sé tutta la propria storia di femmina reificata nei 60, arcistufa nei 70, soprammobilizzata negli 80, consapevole nei 90, relativamente incazzata nei Duemila e rotti. Il femminilismo è l'uso iterativo di materiali imbottiti, trapuntati, matelassé anche per gli abiti da sera, come hanno fatto Giorgio Armani, Francesco Risso per Marni, Fabio Rigoni per Salvatore Ferragamo: tutti intenti a costruire soffici armature intorno al corpo di una donna, come per difenderla e imbozzolarla dalle cattiverie del mondo.

Però le mode di oggi si diffondono velocemente e non raggiungono una diffusione capillare tale da arrivare a uniformare lo stile o i comportamenti della massa. Nel passato invece, come negli anni delle controculture giovanili, le ideologie e l'appartenenza a gruppi politici venivano manifestate anche attraverso una sorta di dress code condiviso, che permetteva agli appartenenti ai vari gruppi di riconoscersi reciprocamente, ma al contempo di differenziarsi dagli altri, e in particolare di mandare messaggi di critica nei confronti della cultura dominante.

Siamo felici, quindi, che molti celeberrimi brand inneggino a cause di capitale importanza per la difesa dei diritti umani, però.

Però, se andiamo a rispolverare i libri del liceo, troviamo che la moda è sempre e comunque “politica”, visto che la parola indica interessi comuni, sistemi sociali, e ha la sua radice in in un'altra sciarada: quella tra “polis”, la città, che è il luogo di “polloi”, ovvero di molti, moltissimi. Ogni abito è un'operazione politica, a pensarci bene. In questo senso, a rivelarsi quindi ancora più “politiche” delle altre sono le sfilate che hanno oltrepassato la protesta circoscritta per diventare più inclusive e oltrepassare ogni stereotipo non tanto sessuale (ci si meraviglia che qualcuno che lavori in questo campo sia etero), quanto anagrafico, etnico, fisico. Dall'universo fantasmagorico di Gucci, più che mai pronto a giocare sull'alchemica fusione degli opposti – maschio e femmina, elegante e vernacolare, streetstyle e museofilia – disponibile in una collezione che abbraccia ogni tipo di tipologia e comportamento umano, arrivando a desimbolizzare perfino la falce e martello dei comunisti per metterla su un paio di scarpe.

Da Dolce & Gabbana, la folla di figli con madri, madri con nipoti, nipoti con fidanzati ambosessi, ambosessi con congiunti assortiti, lancia un liberatorio e allegro proclama di libertà fondata sull'individuo. E nella memorabile performance di Antonio Marras, una parata di amiche settantenni e adoloescenti, di ottantenni e ottentotti, di parenti, di attori e di modelli che corrono allegri indossando abiti volatili e ottimisti che uniscono il ricordo di Eva Mameli, prima donna botanica della storia italiana (un genio della scienza punita dalla storia perché genitrice di Italo Calvino) alla gestualità malinconicamente lieta di Pina Bausch, ritroviamo l'autentica accezione della parola “politica”. E anche della parole “protesta”.

Chi si ricorda dello slogan «Una risata vi seppellirà»?. Oggi contestare è anche uscire da una sfilata con il cervello in ballo e il cuore danzante di allegria. Perché nulla fa arrabbiare tanto i potenti quanto mostrar loro la nostra, personale, autentica serenità d'animo.

Senza perdere la rabbia per i danni che ci hanno causato. Tié.

1
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Antonio Marras.

2
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Bottega Veneta.

3
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Brunello Cucinelli.

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4
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Dolce & Gabbana.

5
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Emporio Armani.

6
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Etro.

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7
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Fendi.

8
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Giorgio Armani.

9
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Gucci.

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10
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Gucci.

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Jil Sander.

12
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Marni.

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Missoni.

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Prada.

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Versace.

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