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Milano Moda Donna AI 2016-17, designer sull'orlo della sindrome di Fregoli

Rincorsa ai fatturati, sfilate sì sfilate no: ma chi pensa alle consumatrici finali?

Di Antonio Mancinelli
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Getty Images

Ora che la kermesse milanese è finita, possiamo fare una considerazione, dato che i vestiti li avrete già visti su questo e altri siti e vi sarete fatti le vostre idee? Dopo eoni di mutismo, ere di bocche chiuse e occhi spalancati in nome della civiltà dell’immagine, le sfilate si sono rivelate fonte di discussioni, anche accese. Temi: i défilé sono morti o solo svenuti? I vestiti sono überintellettualizzati o ne sottovalutiamo i reconditi messaggi filosofici? Ma soprattutto: sarà meglio vendere - nell’era del profitto più spietato e immediato, dei guadagni più feroci e veloci - con la formula del “See Now, Wear Now” (vedi la sfilata in streaming e subito, senza por tempo in mezzo, te la ritrovi a casa, pur se in teoria è stata pensata per sei mesi dopo, e nel frattempo? Ci si inventeranno altre cose e se ci sarà un progressivo diradamento neuronale dei designer, li si sostituisce). Oppure sarà finanziariamente più soddisfacente ritornare al sistema di una volta (due sfilate all’anno, magari accorpando le collezioni uomo e quelle donna) per agire sul desiderio che lievita nell’attesa? La questione è apertissima. A noi ciò che sembra molto strano è vedere il collassante sistema della moda colpito dalla “Sindrome di Fregoli”: la stessa che ha Michael Stone, protagonista di Anomalisa, meraviglioso film di Charlie Kaufman candidato agli Oscar per la categoria “miglior film d’animazione” (naturalmente ha perso). Esiste per davvero ed è una cosa brutta: credi di essere perseguitato dalla stessa persona che ti segue, ti spia, e sei sicuro che questa persona sia in grado di assumere ogni volta un aspetto diverso, diventare uomo-donna-bambino. Ma è sempre lei, sa tutto quello che fai.

Sta succedendo la stessa cosa ai grandi della moda. Nessuno vede più il bersaglio finale, quello che dovrebbe farti guadagnare: la consumatrice. Che, nella stragrande maggioranza dei casi, loro vedono sempre identica, sia pur con piccole variazioni.
Giovane, tanto da apprezzare qualsiasi riproposizione del vintage, strappato a ogni epoca storica a lei antecedente.
Plutocrate, tanto da permettersi abiti e accessori così decorati da dover contare o su genitori miliardari o su amanti estremamente facoltosi: con i suoi (pochi) anni persino la più stacanovista delle cinesi, da sola non potrebbe comprarsi neppure una manica.
Snella, snellissima, perché nell’accostamenti quasi parossistico di elementi così diversi, per non farsi giudicare un caso manicomiale, devi inalberare una fissità flessuosa e verticalizzata.

Molti si concentrano su questa (im)possibile figura, mentre sarebbe assai furbo ritenere che al giorno d’oggi chi ha i soldi per comprarsi questi oggetti, ha pure un’età in cui non le va più di vestirsi come 30 o 40 anni prima. Perché li ha già messi, quei capi. O li ha già visti su parenti femmine. Sarebbe ancora più da sgamati pensare ad abiti che molte donne reali possono acquisire pur sapendo di contare su corpi disonesti, non affusolati come li si vorrebbe. È un fatto: a tutt’oggi non c’è un designer di grande nome che faccia abiti belli, donanti e chic oltre la 44. Sai quanti soldi si farebbero? Invece, nulla: tutti a incaponirsi sul revival, sull’adolescente, sulla piccola imperatrice.

Ci sono le dovute eccezioni, certo: le collezioni di Jil Sander, Bottega Veneta, Marni, Salvatore Ferragamo, Brunello Cucinelli, Giorgio Armani, Stella Jean, Fendi, Dolce & Gabbana, Max Mara e Prada (ma anche Alberta Ferretti e DSquared), parlano un linguaggio rivolto a signore, non ragazze. Che non vuol dire fare una moda “vecchia” o “da cicciona”. Significa relazionarsi con persone vere, dotate di conti in banca talvolta pingui (è più facile che sia un’ultraquarantenne ad avere un ruolo da manager anziché sua figlia sedicenne) per arrivare a ottenere quel che ci si aspetta da ogni bravo progettista: fare abiti che siano contemporanei e portabili, sperimentali eppure confortevoli, nuovi perché mai visti prima e nello stesso tempo rassicuranti. Che vi piaccia o meno, il nuovo genio della moda internazionale, il georgiano Demna Vasalia, è diventato celeberrimo in quattro stagioni con una linea che si chiama Vetements, cioè "vestiti". Punto e basta. E intanto l'hanno chiamato a rivitalizzare Balenciaga.

Certo: fare moda con questi limiti, non deve essere facile. Ma è molto difficile arrivare a fatturati mostruosi intortando il colto e l’inclito con lo spaccio di borsette, occhiali da sole, scarpe, bijoux. Si dirà: ma il sogno, l'indispensabile medium che serve a veicolare merci? Spiace essere brutali, ma una teoria di aridi numeri da percorrere in salita non è meno brutale. Del resto Jean Baudrillard, scriveva già nel 1972 che la società contemporanea è soprattutto una società dei consumi, in cui gli oggetti vengono valutati non tanto per il loro valore strumentale, ma in quanto capaci di comunicare distinzioni. Di censo, di status, di cultura, ma anche di età.

Per curarsi dalla sindrome di Fregoli, forse si deve essere ancora più cinici (o più comprensivi?). E sforzarsi di domandarsi di cosa oggi le donne - tutte le donne: fanciulle, matrone, ninfe, dee, virago, vip o sconosciute, paffute ed esangui - hanno davvero bisogno. Vuoi vedere che i fatturati crescono?

Foto apertura: Una scena del film Anomalisa

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Bottega Veneta sfilata AI 2016-17

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Giorgio Armani sfilata AI 2016-17

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Giorgio Armani sfilata AI 2016-17

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Max Mara sfilata AI 2016-17

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Marni sfilata AI 2016-17

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Salvatore Ferragamo AI 2016-17

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Brunello Cucinelli presentazione AI 2016-17

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Brunello Cucinelli presentazione AI 2016-17

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Brunello Cucinelli presentazione AI 2016-17

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Fendi sfilata AI 2016-17

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