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Pitti: prove tecniche di contemporaneità

Uomini di mondo, uomini di moda: quando lo stile si esprime in tante lingue.

Di Antonio Mancinelli
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Getty Images

Firenze: la città che aveva fatto del classicismo il suo feticismo – tanto da denominare Pitti People i suoi visitatori, pavoni sigillati in blazer sgargianti/aderenti abiti sartoriali/variopinti, accessori coloratissimi/artigianalissimi – ha promesso e mantenuto una Grande Rivoluzione. Quella del dialogo con il contemporaneo. E di riuscire a definirsi, con buona pace dei pavoni, un laboratorio dove mettere in circolo idee dai quattro angoli del globo. Ha sfidato ogni pericolo di rinnegare il proprio dna accettando diversità vestimentarie e filosofiche, seguendo quell'accezione che di “esotismo” dà Victor Segalen: «Tutto ciò che è altro significa aprirsi all'estraneità dell'Altro e sentire se stessi, tra gli altri, rivestiti di un'estraneità inquietante» (da Saggio sull'esotismo). Dai gentleman ottomani rivisitati e aggiornati con un refresh mentale dai sette stilisti provenienti dalla Turchia, Guest Nation 2013, fra tormenti ed estasi della loro terra («Sono a Firenze, manifesto su Twitter contro il governo, eppure sono qui grazie al governo: capisce il mio imbarazzo?», confessa una di loro) alle forme asimmetriche e purissime del croato Damir Doma per la collezione resort femminile nell'ambito di Pitti W.

Scivola in passerella il gentleman in tre pezzi perfetto – giacca, gilet, pantaloni ma ognuno realizzato in un diverso tessuto etnico – per la più bella sfilata fiorentina, quella di Stella Jean (che ha origini haitiane), che lavora come l'artista Yinka Shonibare predisponendo conversazioni (im)possibili tra Europa e Africa, tra Londra e Bamako. Il giapponese Junichi Abe, per Kolor, sovrappone materie diverse arrivando a ripensare i generi maschio-femmina, declinando in forme sportive e virili tessuti impalpabili da fanciulla in fiore - organza, seta, nylon lieve. E il risultato è forte e delicato, imponente e rarefatto, determinato e intinto nell'acquerello dei ricordi. Impone un emotivo vintage di oggi la collezione di Massimo Giorgetti per MSGM, con un ripescaggio di un passato «dove non c'era il fast fashion» che sembra ieri e sono trascorsi vent'anni: i 90 dei romanzi di J. T. Leroy (Ingannevole è il cuore più di ogni cosa) e di Beverly Hills 90210, di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana e di Paranoid Park di Gus Van Sant.

C'è una nuova generazione di designer che rischia di contagiare il grande patrimonio della tradizione, felice di ammalarsi con sintomi di camicie stampate a rose, di giacche in cromatismi semaforici, di tessuti naturali trattati come fossero sintetici (gli stupefacenti giubbotti da motociclista in lana e seta che sembra neoprene di Julien Cerruti) di stampe ultraromantiche per sciarpe ultradesiderabili, quelle di Pierre Louis Mascia. Gli uomini di oggi non s'interrogano sulla geografia cartografica ma su quella sentimentale, si coalizzano in trasversali tribù stilistiche riunite dalla comunanza di desideri, trovano risposte a esigenze collettive (un pianeta più pulito, una passione per l'originalità, un abbigliamento multitasking che paghi pegno alla sartoria) si (ri)trovano a Firenze come loro loro capitale d'elezione. Mentre l'Arno scorre sereno e prova a sentirsi Tamigi, Senna, Nilo o Colorado. Tanto, lui lo sa: solo così non perde la sua italianità...

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Kolor

Imaxtree/ Francesca Zaccagnini

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Damir Doma

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MSGM

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Stella Jean

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