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Il gusto di un'epoca

Sfilate a Milano: come una ricetta di cucina ai tempi di Renzi e di Sanremo

Di Antonio Mancinelli
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Getty Images

Cuoci a fuoco lento l'idea di uno stile identitario finché non è ridotta a pochi elementi essenziali (a chi usa il termine “iconico” vien voglia di parafrasare il motto del leader nazistaBaldur von Schirach: «Quando sento la parola “iconico”, metto mano alla pistola»). Aggiungi una spruzzata di estro creativo e una dose massiccia di qualità. Insaporisci con ricerca su materiali e texture a piacimento. Servire in dosi più che abbondanti ai compratori di mezzo mondo. Le collezioni di Milano ai tempi di Masterchef & Rachida, Sanremo & Fabio Fazio, il governo & Matteo Renzi, offrono un'immagine italiana che mette da parte idee troppo rischiose e vuole soddisfare tutti con il rischio di non renderli felici.

E infatti: la pervasività di un abbigliamento confortevole, quasi da casa, o meglio, da dimora - tema ricorrente in molti show - ha un contraltare nella necessità di non speziare la moda con ingredienti forti ma di offrire portate dal sapore piacevole ma abbastanza noto per non risultare sgradito. C'è l'universale junk food di Jeremy Scott (ma attenzione: la tavoletta dell'orrendo cioccolato americano Hershey's in cui era nascosto l'invito in realtà è un'imitazione messa a punto dalla pasticceria Saint'Ambroeus), che esordisce per Moschino con una collezione che, piaccia o non piaccia, recupera lo humour trasgressivo di Franco e quello sberleffo di irriverenza antifashion che gli era congenita. C'è il consommé ristretto, concentrato e quindi tanto più ricostituente per i fatturati, di Massimiliano Giornetti per Ferragamo, autore di una tra le più efficaci collezioni per la maison fiorentina. C'è il fusion taste di Giorgio Armani giocato sul verde celadon e il carbone, il pistacchio e il nero di seppia, la giada e l'onice. Ci sono i toni marshallows di Gucci, condensati in forme Sixties Style, quelli aspri e affascinanti di Prada, tra pietanze di impatto sicuro e altre, più conturbanti, in diretta dalla cucina creativa di Rainer Werner Fassbinder che condiva con “lacrime amare” la storia di Petra Von Kant. C'è la raffinatissima macedonia di Giappone, Africa e Italia di Stella Jean e lo squisito dessert di Marco De Vincenzo, così buono che i francesi ne hanno già comprato una fetta. E ci sono i sapori di una volta, o meglio di “C'era una volta...” nelle sfilate di Dolce & Gabbana e Alberta Ferretti, devoti alle madeleines emotive di fiabe, fate, principesse, boschi incantati.

Ma ci chiediamo: bastano ingredienti eccelsi per convincere i nuovi avventori? Fuor di metafora: la filosofa femminista Gayatri Chakravorty Spivak sostiene che la moda è la forma in cui si organizzano le narrative del dominio capitalistico. E va bene. Ma per funzionare deve portare con sé storie, produrre mitologie, allestire sogni, proporsi come luogo di conflitti e discussioni. Non si può accontentare “renzianamente” chiunque, con un piatto unico transnazionale.

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De Vincenzo.

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Alberta Ferretti.

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Dolce & Gabbana.

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Ferragamo.

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PradaGiorgio Armani.

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Gucci.

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Moschino.

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Prada.

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Stella Jean.

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