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Sfilate moda uomo. Inventario d’Occidente

A Milano le sfilate raccontano un presente difficile e prezioso, antologico ed enciclopedico.

Di Antonio Mancinelli
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Getty Images

in alto: sfilata di Prada

Il cappotto cammello? Fatto (Salvatore Ferragamo). L’abito da dandy? Fatto (Alessandro Michele per Gucci). Lo smoking? Fatto (Emporio Armani). Il completo nero? Fatto (Bottega Veneta). Il camouflage? Fatto (Thom Browne per Moncler). Il blazer grigio? Fatto (Brunello Cucinelli). Il caban blu da marinaio? Fatto (Giorgio Armani). Il cappotto da soldato? Fatto (Jil Sander). Il cowboy? Fatto (addirittura in tre: Dolce & Gabbana, Missoni e Antonio Marras). Il pelliccione da cacciatore selvaggio alla The Revenant? Fatto (Ralph Lauren e di nuovo Dolce & Gabbana). L’activewear? Fatto (Versace).

Le sfilate maschili per il prossimo Autunno Inverno 2016-17 somigliano a un catalogo dei capisaldi dell’abbigliamento maschile occidentale, spuntati uno per uno da un’ipotetica lista sulla riorganizzazione di un guardaroba dell’uomo di oggi.È una sistematizzazione in termini enciclopedici, una tassonomia estetica che testimonia splendori e miserie di un Occidente che vive adesso momenti bui, tempestosi, cupi. Non sta arrivando la guerra, meglio: non ancora. Ma si fanno i conti con la propria storia per asserragliarsi nelle certezze di chi siamo, di che cosa abbiamo fatto. Le sfodereremo quando arriveranno. Chi? I rifugiati? I terroristi? I virus? L’inquinamento? L’Isis? La crisi? Tutti quanti insieme? Di sicuro, la definitiva sconfitta di un sistema economico che ormai sta crollando e il cui modello, nel rivelarsi fallimentare, trascina con sé i capitali di persone normali si riflette nella moda (avete presente il film La grande scommessa?), che - alla faccia di chi, stoltamente, si ostina a pensare il contrario - vive sì in una bolla speculativa, ma non in una bolla (e basta).

Nessuno è così ricco da rinchiudersi in un bunker per farsi una sfilata autoreferenziale davanti allo specchio. Ciò non toglie che nel gioco delle differenze da un brand all’altro, l’alternarsi delle forme, il tentativo di dire qualcosa di nuovo in un campo così difficile come il menswear alla fine ha generato un’immagine dalle mille sfaccettature. Non abbiamo visto sfilare la noia, anzi, ma una contemporaneità che si esprime senza ignorare il passato. Perché non lo può fare, ecco perché.

«Che si possa parlare di una crisi del mondo moderno, prendendo la parola “crisi” nel suo significato più comune, è cosa che i più ormai non mettono in dubbio; e, almeno a questo riguardo, si è prodotto un mutamento abbastanza sensibile rispetto al periodo che immediatamente ci precede: per la forza stessa degli avvenimenti, certe illusioni cominciano a dissiparsi e noi, da parte nostra, non possiamo che rallegrarcene, poiché, malgrado tutto, in ciò si ha un sintomo già buono, l’indizio di una possibilità di rettificazione della mentalità contemporanea, qualcosa che appare come una debole luce in mezzo al caos attuale». Sono parole di René Guénon, dalla prefazione a La crisi del mondo moderno, pubblicato nel ’94, ma mai così attuale. René Guénon non è stato citato dai designer, ma altri nomi sono offerti come referenti filosofici, da Michail Bakunin a Walter Benjamin. Pensatori occidentali che hanno fatto dell’osservazione del mondo la loro missione. E mentre si saltava da una sfilata all'altra, si sentiva, eccome se si sentiva. Sono le prime sfilate ai tempi degli attentati: spuntavano discreti, talora vezzosi i metal detector agli ingressi, gli occhiuti sguardi di agenti nelle borse griffate e cartelle deluxe. Abbiamo respirato un quieto approssimarsi al terrore di chi affronta un clima pre-bellico.

Il problema che si pone, dunque, è il seguente: come trasmutare - quasi alchemicamente - il piombo dell’angoscia nell’oro dei fatturati, perché comunque d’industrie e di aziende si tratta, che devono macinare utili e ricavi? Esemplari, nella gestione di questo interrogativo, le sfilate di Prada e di Gucci, in apparente contraddizione di visioni - da una parte, una buia piazza seicentesca per un autodafé da Inquisizione spagnola, dall'altra un salotto settecentesco alla Madame de Sevigny - e nel contrasto violento di proposte. Per la sfilata di Prada, che si è drammaticamente svolta quando abbiamo appreso del massacro di 300 civili in Siria, il nero squarciato dal candore delle camicie. Per la sfilata di Gucci, il colore e le fantasie diverse riunite insieme nella stessa mise. Tutti due arrivano comunque allo stesso punto, partendo da concetti opposti. Per Prada, il neo-medioevo di una storia infame e crudele si condensa intorno a forme che richiamano il mozzo della nave di Moby Dick e non il capitano Achab, a giacchette più da servo della gleba che da servo del potere, e finisce per rendere desiderabile la paura attraverso un’indagine semiotica di un abito d'antan che si rivela straordinariamente modernissimo. Le camicie sono illustrate (a opera di Christophe Chemin) con eroi di guerra e di rivoluzione da Pasolini a Che Guevara, sono abbottonate in modo sbagliato, sembrano disperate come una divisa manicomiale e si rivelano belle come un quadro (soundtrack: Where the Wild Roses Grow, di Nick Cave & The Bad Seeds con Kylie Minogue).
Alessandro Michele per Gucci, invece, sembra affermare che bisogna avere gli occhi di un Aveugle par amour (dal nome di un romanzo del ‘700 di Fanny de Beauharnais), di un accecato dall’amore, per vederci bene nel mondo attuale. E la stratificazione della memoria di qualcosa che ci è appartenuto, anche solo sentimentalmente, riattiva poeticamente il potenziale poetico di oggetti che già conosciamo, ma hanno ancora molto da dirci, se messi in contesti diversi e su persone differenti (come la modella/o Hari Nef): i completi a fiori, i pigiami di seta, le referenze a stilisti come Walter Albini ed Elsa Schiaparelli, i mantelli tricottati, gli occhiali da vista, le bluse ricamate, la presenza del “filosofo” Snoopy, i ricami con l’ape, confermando e consolidando una silhouette già impressa nell’immaginario del desiderio collettivo (colonna sonora: Imagining Buffalo, dalla colonna sonora di The Revenant, e te pareva). Ma non solo: dichiarando che gli abiti sono «scintille capaci di costruire costellazioni ricche di futuro in cui il passato possa incontrarsi con il presente», citando Walter Benjamin, offre una speranza in forma di abito che è presa di posizione politica, estetica, culturale.
Se arriva l’Apocalisse, abbiamo molto da metterci: indosseremo la nostra sapienza e la nostra conoscenza. Metteremo sui nostri corpi i nostri pregi e i nostri errori, i nostri vizi e le nostre virtù. Coscienti che con l’eleganza abbiamo “una relazione complicata” ma duratura. E con il bello flirtiamo dai tempi della Magna Grecia e forse anche da prima.

Queste sfilate ci mettono di fronte a una domanda. Non è arrivato il momento di rovesciare l’ormai usurata frase di Dostoevskij «la bellezza salverà il mondo» in: «ll mondo salverà la bellezza?».

Noi continuiamo a inventariare l’Occidente: è l'unica salvezza.

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Sfilata Cuccinelli

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Sfilata Bottega Veneta

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Sfilata Prada

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Sfilata Marras

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Sfilata-di-Moncler

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Sfilata Dolce e Gabbana

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Sfilata Dolce e Gabbana

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Sfilata Emporio Armani

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Sfilata Ferragamo

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Sfilata Giorgio Armani

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Sfilata Missoni

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Sfilata Gucci

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Sfilata Versace

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Sfilata Jil Sander

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