A parte le indispensabili misure di sicurezza, nulla attorno all’edificio al 1209 di Barley Mill Road nella cittadina di Wilmington, Delaware, fa pensare al centro nevralgico di una delle sfide più complesse del presente: la battaglia contro Trump per le elezioni americane di novembre. E non stupisce che sia Joe Biden a condurre la campagna da quel seminterrato anonimo e spoglio, perché il candidato democratico è noto per semplicità e modestia e tutto, nella corsa a diventare il 46esimo presidente, rispecchia il suo carattere. Basta fare il paragone con l’indecenza, la rutilante megalomania delle iniziative e dei messaggi elettorali di Donald Trump per capire quanto Biden, che a fronte degli attacchi dell’avversario, nel discorso d’investitura ha perorato «pace, luce e speranza», sia l’esempio di cui gli Stati Uniti e noi abbiamo oggi bisogno. Joe Biden, il cui unico marchio di “gloria” a Wilmington è l’appellativo dato alla piscina comunale in cui da ragazzo aveva fatto il bagnino e non un grattacielo sovrastato dal proprio cognome a Manhattan. Semplicità che non si esaurisce in umiltà, privazioni o ingenuità, non è il ritornello di una canzoncina: è decenza e sostanza, è calma, andare al cuore dell’esistenza, liberarsi di sovrastrutture per scegliere il meno e meglio; meno e vero.

Durante il lockdown avevamo scoperto il piacere di un’esistenza placata. Arriva l’estate, si riapre, controreazione: riprendersi tutto o quasi. Ne avevamo il diritto ma abbiamo ricominciato a saturare la nostra vita, a degradarla: e perché succeda, basta abbandonarsi alla corrente, alla cultura dominante, al superfluo considerato indispensabile, a servizi “personalizzati” che di personale hanno soltanto il vantaggio dell’azienda o della piattaforma che li propone. Semplificare è necessario per affrontare la triplice crisi economica, ambientale e sanitaria e immaginare il nostro habitat a misura umana e non a quella necessaria alla società per funzionare. Anche prima della pandemia, non sentivamo di vivere un’esistenza riempita di azioni “irrinunciabili”, non per noi ma per una quotidianità che ci esauriva, con quegli oggetti (e azioni) “mai più senza” su cui ironizzavamo senza accorgerci che stavamo mangiando pesche sciroppate coltivate in Argentina, inscatolate in Cina e trasportate da un cargo per migliaia di chilometri? Se pensiamo alla rete di azioni che imbriglia giornate e pensieri, è lampante il livello di complessità infernale raggiunto.

Semplicità era la parola in attesa dentro anni di libri e messaggi che invitavano a mettere ordine o fare a meno, a disintossicarsi dagli schermi, elogiando lentezza, silenzio, il camminare a piedi nudi e il respiro. È nata poi la passione per le capanne, le micro-abitazioni sostenibili, i caravan parcheggiati al limitare del bosco. Sono i simboli concreti della ricerca di una dimensione ridotta, una selezione dei bisogni, un’estetica che è etica. Partendo dalla scelta di abitare per un periodo della vita in una capanna da parte di quattro personaggi - tre famosi, i filosofi Thoreau e Wittgenstein, l’architetto Le Corbusier, e uno famigerato, il terrorista Ted Unabomber Kaczynski - il filosofo Leonardo Caffo ha scritto un saggio illuminante, Quattro capanne - o della semplicità (Nottetempo). E descrive la semplicità come l’urgenza di vivere la vita dall’interno e non dall’esterno, di fare a meno per essere presenti nel fare. E offre un’intuizione: semplice è un concetto temporale, è liberarsi dall’angoscia per il futuro, dalla tristezza per gli errori passati, dal non sentirsi al posto giusto. Come suggerisce il monaco buddista Ajahn Brahm, semplificazione è rinunciare, più che ai beni, ai vecchi rancori e alle opinioni consolidate. Dobbiamo diventare filosofi della nostra vita. L’alternativa è essere condizionati da filosofie che piovono dall’alto. Sono stati gli anni dell’ansia da disconnessione: non è ora di cambiare?

Se viviamo giorni complicati, la “colpa” è in gran parte di una società, argomenta Rebecca Solnit, in cui divertimento, pubblicità e marketing spingono a essere consumatori della vita, a isolarci nella ricerca di soddisfazioni materiali, condizionati dalla competizione. Siamo rivali e quindi soli, convinti di avere di più perché l’altro ha di meno. Siamo però capaci d’invertire la rotta. L’abbiamo visto ai tempi della pandemia, quando abbiamo assistito a un brulicare di azioni solidaristiche per la comunità, decidendo di raccontarci in modo diverso da quello competitivo. Per qualche settimana, le artificiose barricate tra noi erano cadute. Approfittando delle intuizioni di Caffo, è utile riconoscere che nessuno è in sé semplice o complesso: è nel rapporto con l’altro che si compie la scelta, è nell’affrontare la vita che si rimane leggeri oppure oppressi da ciò che non ci riguarda. Chi ha deciso che dobbiamo cambiare stato di Whats­App ogni giorno? Eppure ci poniamo il problema di cosa pensino gli altri di ogni nostra azione, perdendo la concentrazione sul presente, perfino quando siamo in mezzo alla meraviglia. Scriveva nel 1854 Henry David Thoreau: «Che senso ha stare nel bosco se sto pensando a qualcosa che sta fuori dal bosco?». Non è la nostra condizione?


È il momento di trasformare le richieste che rivolgiamo all’esistenza. Se ci accorgiamo che il tempo è fagocitato dall’alto, dalla corsa ad adeguarci a ciò che dovrebbe renderci più felici o popolari, ma che indebolisce la mente facendo scegliere l’opzione più comoda, non possiamo aspettarci che l’aiuto arrivi da Amazon, Uber o Facebook. La complessità dei bisogni dei singoli, la montagna di azioni superflue e non remunerate è alla base della loro architettura e del guadagno. Non saranno loro a semplificare l’esistenza per noi. Charlie Warzel, un reporter di The New York Times, ha creato un sondaggio per i numerosi followers del suo Twitter: di fronte alla domanda su come creare social media umani, la maggioranza ha risposto che l’unica soluzione sarebbe chiuderli.
Come Joe Biden siamo persone semplici in una sfida difficile, ma possiamo indirizzare le nostre azioni. E ispirarci a lui che, davanti alla tragedia del suo popolo con quasi 181 mila morti per il Coronavirus, ha messo la compassione prima del proprio interesse politico. E ripartire dalla semplicità. I precedenti sono illustri. Se s’interrogano scienziati o atleti su record o scoperte, rispondono che la chiave di volta è stata quando hanno abbandonato la complessità per la semplicità.


Secondo una recente indagine dell’agenzia di relazioni pubbliche DJE Holdings e pubblicata da Forbes, la pandemia ha provocato una rivoluzione nella scala di valori dei consumatori americani. La parola che ha fatto il balzo in alto più evidente, passando dalla quindicesima alla seconda posizione, è semplicità, subito dopo la protezione della famiglia. Gli altri valori scelti dalla Generazione X - quella che sostiene i consumi - mostrano una sorprendente somiglianza con quelli in auge dopo la Grande Depressione. Generosità, onestà, relazioni stabili. Non stupisce che in fondo alla classifica si trovino ambizione e ricchezza. Le parole prendono piede, s’introducono in ambiti diversi. Semplicità compare nei titoli di libri, Alessandro Borghese ha chiamato il suo ristorante Il lusso della semplicità, il primo ministro pakistano Imran Khan, di fronte alla prospettiva delle grandi feste religiose e alla minaccia del contagio, ha invitato alla “semplicità” di comportamento. In un editoriale pubblicato su Domus lo storico dell’arte Emanuele Quinz avverte che la semplificazione, da sempre anima del design, è diventata questione di vita o di morte e che i sintomi di questa svolta possono essere già visti nella proliferazione di strutture che infiltrano il tessuto urbano, quali giardini condivisi, eco-vicinati, cooperative energetiche, centri di riciclo. Sono tentativi dei cittadini di rendersi indipendenti da istituzioni e mercato. La semplicità mantiene le promesse di una scelta ecologista e solidale, riporta la giusta dose di vuoto e silenzio, è avvicinarsi al punto in cui non si capisce dove termina l’uomo e inizia la natura. Difende dall’oppressione delle logiche giudicate essenziali per la sopravvivenza di una società in cui contiamo sempre meno. È ripartire da zero dopo la tempesta.

In una giornata di turismo immobiliare tra casolari di campagna, sono capitato nella “reggia” di un contadino arricchito. Se ne stava seduto su una sedia rotta davanti all’ingresso, una palazzina fatiscente alla Scarface affacciata su una piscina di grottesca e consunta sfarzosità. Tutto era troppo e malandato, frutto di lavoro e ambizioni smisurate. L’uomo rimpiangeva il passato, quando non aveva quasi niente. Non ha voluto che entrassi in casa. Sono scappato.

La foto in apertura è di Anna Di Prospero (nata a Roma nel 1987), una delle fotografe più note del panorama italiano. I suoi scatti indagano in modo intimo e poetico il quotidiano e il mondo delle relazioni. Ha vinto numerosi premi, esposto in mostre personali e collettive in tutto il mondo e in Italia è rappresentata da MLB Gallery (annadiprospero.com).