Il secondo episodio speciale, dedicato alla figura di Jules, è da poco approdato su HBO, e già è risalita la febbre di Euphoria, serie americana che racconta la complessità della vita degli odierni adolescenti, una Generazione Z tra luci e (parecchie) ombre, che naviga gli anni che li separano dall'università e dall'inizio di una vita adulta tentando di trovare se stessi tramite il proprio riflesso negli altri (la prima serie, insieme ai due episodi speciali, sono disponibili in Italia, On demand su Sky e in streaming su Now Tv, ndr). Accompagnato da un brano realizzato ad hoc da due tra le personalità femminili più apprezzate dalla Gen Z (Billie Eilish e Rosalía, Lo vas a olvidar), lo "speciale" rappresenta un premio per i fan, in costante attesa per la seconda stagione – che deve ancora essere girata ma che con tutta probabilità sarà trasmessa entro quest'anno – che racconta nel dettaglio i due personaggi chiave, interpretati da una Zendaya ormai catapultata nell'universo delle divinità di celluloide da record (per la sua interpretazione proprio in Euphoria ha vinto l'Emmy Award come miglior attrice drammatica, a soli 24 anni, la più giovane di sempre) e Hunter Schafer.

Non si tratta però qui, solo di un guardaroba più o meno desiderabile, con pezzi entrati nell'immaginazione e nelle ricerche collettive. Certo, Lyst, dopo la messa in onda della prima puntata, analizzò i dati sulla sua piattaforma, scoprendo che, ad esempio, lo zainetto bicolor in pelo rosa e rosso, indossato da Jules – il Dollskill Mini Furry – andò sold out in 48 ore, mentre le sneakers con swarovski di Cassie, un'altra delle protagoniste – e che erano delle Nike Air Force 1 – salirono del 20% nelle ricerche nelle settimane seguenti. La forza della serie – che la rende diametralmente opposta a tutti gli altri prodotti cinematografici o televisivi incentrati sui dolori dei giovani Werther nei corridoi dell'high school – è proprio nel considerare i vestiti come strumenti di evoluzione, ma mai di categorizzazione del personaggio. Un argomento sul quale ha riflettuto in maniera ampia Refinery 29, in un pezzo recente, intitolato "From Clueless to Euphoria, why are we all so obsessed with onscreen teen style?". Analizzando tutte le commedie televisive e cinematografiche prodotte dagli Anni 90 a oggi, in effetti, è facile notare come i vestiti siano un mezzo per identificare sin da subito il gruppo sociale al quale un dato studente appartiene (l'atleta, la cheerleader, il ribelle che ascolta oscura musica indie). Una gerarchia sociale nella quale si identifica anche chi non è cresciuto in quell'ambiente, e lo conosce attraverso lo schermo di una TV: anche qui, nello Stivale, il genere del teen drama ha sempre raccolto consensi, al netto del fatto che racconta di una realtà sociale, tra partite di baseball e balli di fine anno, che non ha mai fatto parte della nostra quotidianità adolescenziale. Questo succede, secondo l'autrice dell'articolo Georgia Murray, perché «che tu ti vestissi o meno come i protagonisti è in fondo irrilevante – probabilmente ti trovavi nel mezzo, e nel corso degli anni, con l'evolversi delle amicizie e dei gusti, hai cambiato anche guardaroba – perché guardare questi film da adulti, e riconoscersi in questa o quella attrice, è un modo piacevole di sentirsi parte di una comunità (percepita) e trovare un senso in un'esperienza spesso dolorosa, turbolenta e imbarazzante». E in effetti secondo Carolyn Mair, psicologa comportamentale autrice del libro The psychology of Fashion, «ricordare il passato in maniera nostalgica (anche quando quel passato, come nel nostro caso, si è svolto secondo ritualità e cambi d'abito totalmente differenti, ndr) è un atteggiamento visto come comprensibile e desiderabile. Le persone hanno reazioni negative quando si chiede loro di ricordare un evento del passato. Se però si chiede di ricordare un evento del quale hanno nostalgia, la reazione è generalmente positiva in quanto ci siamo abituati a considerare la nostalgia come un sentimento positivo».

Oltre quindi alla dimensione della reminiscenza malinconica di un passato, e di un'età che ci siamo definitivamente messi alle spalle, qualità che accomuna più o meno tutti i teen-drama, c'è, in un prodotto come Euphoria, il sovvertimento di un topos classico di certe produzioni: il valore dell'abbigliamento anche a livello narrativo, la sua funzione di "arma" che concede al/alla protagonista, l'accettazione in un gruppo sociale più in alto nella gerarchia sociale, a costo però di perdere la propria identità e omologarsi a quello che le tendenze prescritte da quel gruppo – esteticamente vincente, e quindi automaticamente giusto – indicano come accettabile. Dal semplice abbandonare gli occhiali da vista – rituale quasi magico che consente il passaggio di stato da brutto anatroccolo a reginetta del liceo (Kiss me) – al cambiare completamente il proprio guardaroba (Mean Girls, Ragazze a Beverly Hills) l'arma si dimostra a doppio taglio. A esclusione di casi come quello di Sandy in Grease, o di Drew Barrymore in Mai stata baciata, la cui trasformazione segna anche il passaggio automatico nell'età adulta – e in realtà Drew Barrymore lo era già, essendo una reporter ventenne che si infiltra in un liceo per scrivere un articolo sui misteri delle nuove generazioni – tutte queste trasformazioni vestimentarie vengono abbandonate alla fine del film: le protagoniste sono finalmente consapevoli della loro personalità, e non hanno bisogno di vestiti che, come veli, ne celino o dissimulino l'unicità. Lindsay Lohan, la Cady di Mean Girls, torna alle felpe rosa e agli amici di sempre, Tai (la compianta Brittany Murphy) in Ragazze a Beverly Hills, torna alle sue radici grunge, dopo il makeover preppy operato da Cher e Dionne. In Euphoria – così come in We are who we are, cronologicamente arrivato un anno dopo – i vestiti sono sin dagli inizi identitari, ma sempre lontani dalle stereotipie. Raccontano l'evoluzione della psicologia dei personaggi, più che riflettere le aspettative sociali del mondo esterno: Jules passa da completi che enfatizzano la sua femminilità – crop top zuccherosi, minigonne in denim rosa, tutti strumenti con i quali sottolinea e asserisce il suo voler identificarsi come donna, allontanandosi da un codice genetico che invece l'ha vista nascere come uomo –a pezzi meno vistosi, a significare una rinnovata attenzione nel vestirsi per se stessa, e non per attrarre l'attenzione del sesso opposto. Un processo sviluppato dalle attrici insieme alla costumista Heidi Bivens, già mente dietro i look di Spring Breakers, che a InStyle ha detto: "Mentre progettavo i costumi, ho provato a essere davvero consapevole dell'"eteronormatività" e non ricadere negli stereotipi di ciò che viene comunemente considerato come maschile o femminile. Rue è un personaggio a cui piace la comodità, e anche se ha uno stile ben definito, indosso a lei sembra naturale: è stata coerente con il suo abbigliamento sin da quando è stata grande abbastanza per decidere come vestirsi, e ha idee molto chiare su cosa le piace». Un processo collaborativo, che ha richiesto l'aiuto anche delle stesse attrici, come racconta a Teen Vogue Alexa Demie, che nel serial interpreta Maddy, la cheerleader fidanzata con il campione di baseball. «Abbiamo avuto conversazioni durate ore con Sam (Levinson, il regista ndr), magari incentrate solo sul make up che avremmo indossato», spiega Demie. «Barbie Ferreira, Hunter Schafer e io abbiamo preparato dei moodboard, una cosa che non mi è mai successa in nessun altro caso». La venticinquenne, cresciuta tra le pagine di Harper's Bazaar, ha detto di aver conservato i suoi account Tumblr, con tutte le immagini di ispirazione che aveva raccolto nel corso degli anni – immagini di Showgirls, foto di Elizabeth Taylor e le sopracciglia decorate dai glitter di Nina Simone. Il risultato è quasi disturbante nel suo essere contemporaneo, al netto delle reminiscenze nineties, dovute però, alla ciclicità della moda e ai nostri feed di Instagram che abbondano di account, neanche a dirlo, nostalgici, che ripropongono foto d'epoca spesso monetizzate in abiti che ne celebrano lo stile. Quando Euphoria riprende le minigonne in tartan di Ragazze a Beverly Hills (anno domini 1995, a sua volta citato di recente da Donatella Versace nella sfilata s/s 18 del brand), non fa altro che sottolineare la sua intrinseca "Kaukokaipuu" parola finlandese che spiega l'idea di "nostalgia per un posto nel quale non si è mai stati". Una condizione che colpisce la Generazione Z odierna, ma di cui hanno sofferto anche i millennial nei primi 2000, quando hanno recuperato trend – alcuni abbastanza improbabili – importati direttamente dagli Anni 70, dai cowboy boots di Madonna nel video di Don't tell me (2000) ai sarong indossati sopra i jeans, passando per le t-shirt in tie-dye. Così il completo minigonna e cardigan bicolor in lana indossati da Maddy sono una rivisitazione del classico tailleur Chanel dei nineties – e infatti, secondo Lyst, il giorno dopo la messa in onda della prima puntata, le utenti cercavano online “Chanel dress euphoria" quando in realtà il look era firmato dall'online shop No Dress – mentre il vestito indossato al ballo da Maddie è diretta reference al nude look sfoggiato da Rose McGowan ai VMA del 1998, dove si presentò accompagnata dal fidanzato Marilyn Manson e con un abito che non lasciava nulla all'immaginazione.

La trasformazione dove i vestiti giocano il ruolo più importante è però quella di Kat (Barbie Ferreira) che passa dall'amica sempre dietro le quinte alla dominatrix che trova la sua sicurezza dietro lo schermo di un computer, dal quale elargisce, dietro lauto pagamento, lezioni di BDSM. Dopo aver deciso autonomamente di cambiare look, si percepisce anche il cambiamento di attitudine (anche se questo non esclude una mancanza di sicurezza e consapevolezza quando invece si tratta di relazioni sentimentali, che vedono nel sesso un mezzo, e non il fine ultimo). Muovendosi per i diversi piani del grande magazzino, gli sguardi che gli uomini le riservano cambiano, tanto che il suo compagno di banco le dice "sembri diversa", asserzione alla quale lei risponde "sono cambiata". «Penso che il suo personaggio avesse sempre voluto essere quella persona» spiega Bivens. «Semplicemente non aveva la sicurezza per farlo. Avendola guadagnata attraverso l'adorazione ricevuta online dai suoi "clienti", decide di trasformarsi in quella sua percezione ideale: non si tratta di essere cambiata, quanto di essersi concessa di essere se stessa» Che poi, è il punto dei vestiti, negli Anni 90 come oggi: ma nessuno l'aveva mai spiegato bene come Euphoria.