Il prima per Analía sono 27 anni. Quelli in cui cresce in Argentina con Raúl e Graciela che crede i suoi genitori. Infanzia serena, adolescenza ribelle, militanza a sinistra nel gruppo Venceremos, corrente di Patria Libre e impegno per i diritti umani, tanto che a casa la soprannominano la “piccola comunista”. Nel 2003 all’ennesima domanda di estradizione per i militari argentini coinvolti nei crimini della dittatura, suo padre tenta il suicidio. Analía capisce che l’uomo con cui è cresciuta ha un lato oscuro. E qualche giorno dopo, dall’ospedale, telefona in lacrime alle nonne di Plaza de Mayo con cui collabora, scusandosi per quello che ha fatto Raúl. Questo il prima.

Il dopo è scoprire che non si chiama Analía ma Victoria (il nome che sognava per sé e per sua figlia quando era piccola), che è la nipote numero 78, la figlia di Cori e José María Donda, due tra i 30mila desaparecidos degli anni del regime. Che non è nata nel ’79 ma nel ’77 alla Esma, il centro di reclusione (e tortura) dove hanno rinchiuso sua madre fino al parto, prima del volo nel Rio della Plata. E che è stata affidata a una famiglia vicina al regime.

Il mio nome è Victoria (in uscita il 4 febbraio da Corbaccio) è il libro in cui Victoria Donda racconta la sua storia di ricerca di identità e insieme la storia di un paese. Pagine di ricordi, la scelta di fare la prova del dna econdividere con altri 500 figli di desaparecidos l’aver vissuto un’esistenza non sua. Ricostruire per immagini, flash, foto, i frammenti di vita di Cori e José María.

Il peggio? Forse sapere che il responsabile del sequestro e della morte dei genitori è il fratello del padre, Adolfo, che non solo non la vuole incontrare ma ha adottato la sorella Eva Daniela strappandola alla nonna. Quando ha saputo (nel 2003) ha pianto, avuto incubi e lasciato la politica. Poi ha parlato, ha girato un documentario, è tornata. Nel 2007 Victoria è stata eletta nel Parlamento («la deputata più giovane in base a tutte e due le mie date di nascita») e ci parla di sé con lucidità spietata. Solo alla domanda se crede che il “padre” abbia compiuto un proprio percorso risponde con un secco «sì». Ma comescrive, «i suoi chiarimenti e i miei commenti rimarranno tra me e lui fino al giorno in cui morirò». Altro? «Amo Raúl e Graciela diun amore non esente da conflitti, ma che è pur sempre amore».

Come è stato decidere di fare il test del dna e aspettare i risultati? Molto difficile. Sapevo che questa sarebbe stata quasi una condanna nella causa contro i miei “appropriatori”. Aspettavo e pensavo a cosa avrei fatto se il sangue dei miei non fosse stato in quella banca dati e non avessi mai saputo di chi ero figlia. Succede, ci sono casi non denunciati perché i familiari non sapevano delle gravidanze.

Cosa chiederesti a tuo zio Adolfo (in carcere inattesa di giudizio), il responsabile della morte dei tuoi genitori? Dove sono i loro resti.

Com’è stato il giorno che ti ha cambiato la vita? Vita, amici, compagni sono rimasti gli stessi. È cambiata la mia identità biologica e questo vuol dire che quando prendo una decisione so perché lo faccio.

Dopo che tuo “padre” Raúl ha tentato il suicidio sei tornata a casa e hai fissato la sua pistola. Cosa ti ha convinto ad andare avanti? Sapere che la gente che mi ama vuole che io stia bene. E che una donna ha sofferto molto per farmi nascere e non meritava che la mia vita finisse così.

Chiudere gli occhi o cercare la verità: si può scegliere?Chiudere gli occhi non è scegliere, è permettere che altri scelgano per te. Per scegliere devi affrontare la verità.

Quando hai scoperto la tua identità amici, fidanzati etc. sono cambiati nei tuoi confronti? E tu nei loro? Diciamo che sono più indulgenti. Io da parte mia ho imparato parecchio: a pretendere meno in amore. E che nella vita niente è così terribile.

Cosa pensi di aver ereditato dai tuoi genitori? E da chi ti ha allevata? Gli occhi da mia madre, la bocca da mio padre. Da Graciela, la convinzione che tutti i bambini hanno diritto alla felicità e all’onestà.

Clara (la sorella con cui sei cresciuta), Daniela (la tua vera sorella, adottata da tuo zio Adolfo): chi sono per te? Clara è la persona per cui darei la vita (anche lei ha una storia ma la racconterà se ne avrà voglia, ndr). Daniela è figlia dei miei genitori, spero costruiremo un rapporto.

Cos’hai provato incontrando la famiglia di tua madre Cori? Una cosa strana, una specie di «sono arrivata qui e non c’entro niente con loro».

Cosa diresti a tua madre? Che le voglio bene, che sono contenta di avere i suoi occhi e il suo carattere, che mi sarebbe piaciuto conoscerla. E che la ringrazio.

Pensi che quello che è accaduto in Argentina durante il regime potrebbe accadere di nuovo? No.

Che rapporto avevi con Graciela, che ti ha cresciuta? Ottimo, era ed è mia madre, la mia migliore amica. È morta da due mesi, mi manca una parte fondamentale, sento un’angoscia che non ho mai provato.

Sei stata a vedere il centro di detenzione dove hanno tenuto tua madre fino al parto? Sì. E non riesco a capire come facessero a respirare così tante persone in uno spazio così angusto.

Sei nata nel ’77 e registrata nel ’79: cosa sono quei due anni? Niente, non li ho vissuti, la mia vita continua come se fossi nata nel ’79 (nel libro scrive: «Non riesco a non provare una pena indicibile pensando che uno dei prezzi da pagare per accedere alla mia storia è stato perdere due anni di vita, due anni che mai nessuno potrà restituirmi. Parlare di questo mi costa ancora uno sforzo notevole», ndr).

Come stanno insieme Analía, la nipote, e Victoria? Sono la stessa persona.

Le donne che fannopolitica in Sudamerica sembrano la vera novità. È così? Nuova è l’esposizione, non la militanza. Ma la politica è maschilista perché riflette una società maschilista. Però come ogni costruzione culturale si può cambiare.

Scrivi: «La sfida più grande non è apprendere la verità ma una nuova forma con cui amare altre persone». Cosa vuol dire? Amare gli altri senza considerare le differenze, fare caso a quello che si sente, avere le idee chiare.

Per la tua generazione la politica è una speranza? È l’unica speranza: bisogna cambiare i protagonisti.

C’è qualcosa di cui ancora non riesci a parlare? Molte cose. Ma le tengo per me.