Gli attori vivono sull’Olimpo, si spogliano nudi, ballano fino a mattino ubriachi e drogati, poi spariscono su convertibili argentate, inseguiti dalle nuvole bionde dei capelli delle donne. Mangiano cibi di cui non sappiamo i nomi, hanno case ampie e luminose ma nascoste, e le loro vacanze sono sempre turchesi come il mare che li circonda tra capezzoli e palme. Così ci piace immaginarli, tranne quando guardiamo i loro film: lì, devono essere come noi. Devono assomigliarci, piangere come i nostri bambini e ridere come la ragazza del supermercato, aver paura di baciarsi come ce l’abbiamo noi, e masticare la nostra mortadella: ce la devono far sentire in bocca, la mortadella, altrimenti il film non ci garba, e cambiamo canale. E dov’è che imparano a masticarla così bene? Nelle loro case, che non sono poi così diverse dalle nostre, con le loro ragazze, che li fanno soffrire come le nostre, annoiandosi in vacanze così così, come noi. Perché la verità è che gli attori, come gli dei, non vivono affatto sull’Olimpo, ma in pianura. Qualcuno cerca di nascondercelo, qualcun altro no. Luca Zingaretti, per esempio

«Quando mi dicono che sono un sex symbol, mi vien da ridere. Uno che lo ammette, che ti risponde: già, è vero, sono un sex-symbol, è un coglione, uno che non si rende conto del circo mediatico, di tutto quello che ti costruiscono addosso. Per quanto mi riguarda, vuol dire solo che se un mio personaggio ha avuto quest’effetto, se lui è diventato un sex-symbol, significa che l’ho interpretato bene, gli ho dato vita, ci ho creduto e adesso ci sto dentro. Ma lui è lui, e io sono io, e probabilmente molti s’annoierebbero mortalmente se venissero a cena con me. Una volta Mastroianni m’ha detto che non andava alle cene perché la gente proiettava su di lui i suoi personaggi: se lo immaginavano così, tragico e poetico e leggero, e lui invece era quel signore in un angolo, zitto, con il bicchiere in mano e lo sguardo un po’ perso. Alla fine loro rimanevano delusi, e lui si annoiava. Ecco, per me è pure peggio. Io sono uno tranquillo, un conformista. A parte il lavoro, la mia unica passione è il calcio, ci gioco da sempre, da ragazzo promettevo anche bene, ma attenzione, anche lì, il gol splendido in sé non mi dice niente, io sono un mediano, quello che passa la palla, grintoso, certo, ma più che il passaggio perfetto mi emoziona farmi carico della squadra, sentire undici persone che si muovono insieme e costruiscono una specie di armonia. Ci sono momenti in cui succede, ed è come una bella poesia: passi, vai avanti più velocemente possibile, scarti, ripassi e alla fine anche se non fai il gol, senti che sei arrivato. Come in barca, quando le vele prendono il vento giusto, e senti la spinta e scivoli e vai avanti come per magia, o in una di quelle sere a teatro quando il pubblico respira insieme con te. È una reazione chimica riuscita: non è importante vincere, ma impegnarsi tutti quanti, e quando succede, è lì che io provo il piacere. Sì, sono un mediano anche nel mio mestiere. All’Auditorium, a Roma, ho fatto una lettura del libro di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. Potevo farlo da solo, naturalmente, ma no, ho detto, meglio con gli altri. Ho chiamato i colleghi, è stata una serata straordinaria, perché l’obiettivo non era primeggiare, ma vincere con la squadra. Se per narcisismo dell’attore s’intende sentire millequattrocento persone che vengono a ritmo con te, che ti respirano, be’, allora penso che il narcisismo va bene, a teatro, perché il teatro è dell’attore. Con il cinema è più complicato, lì conta di più il regista, l’attore è marginale. Puoi recitare bene quanto vuoi, se poi ti tagliano, se non ti montano quella scena, tu non esisti più. Fine. Ma il teatro è un’altra cosa, e se quel narcisismo non diventa onnipotenza, se rimane un piacere che condividi, come trovare un’intesa a letto con una donna e non fare soltanto sesso, allora è importante. Se volete emozionarvi con me, allora mi piace. Se no, è masturbazione. Sa qual è la cosa che mi dà più fastidio? Quando mi dicono: ah, sei stato bravissimo, mi hai commosso, ma lo spettacolo un po’ meno… Ecco, mi ricorda quelle punte che vogliono soltanto fare gol e non passano mai la palla. Mi deprimono.

Mio padre era un funzionario Comit, tipo gentiluomo inglese, d’altri tempi; mia madre lavorava all’Inail. Media borghesia, i soldi non sono mai stati un problema, ma nemmeno un fine, e non lo saranno mai: mi servono quelli per vivere, e basta. Certo, c’è stato un turning point dopo la serie del Commissario Montalbano, ma non mi sono mai sentito ricco. Ho una Citroen C3, l’altro giorno si è rotto il cambio, dico io, dopo quarantamila chilometri, allora sono andato a informarmi per la Micra. Ho sempre la mentalità del pane e mortadella, per intenderci, ma ho anche le mani bucate: esco e torno e non so come li ho spesi. La mia fidanzata dice che sono un gadgettaro: colleziono matite, ne ho centinaia, e mi compro tutti quegli oggettini, avrò quindici coltellini svizzeri, che poi sono anche utili, non so, il cavatappi negli alberghi, le mantelline per la pioggia, quelle cazzate lì. La mia famiglia era di sinistra, così son cresciuto in quell’ambiente, ho militato nel Pdup, ma non sono stato mai ideologico: essere di sinistra significava solo essere onesti, parteggiare per quelli che non se la passavano bene. Lì c’era la solidarietà, a destra la violenza, era abbastanza semplice, anche se poi la nonna ci faceva cantare l’inno nazionale e la canzone di Papa Giovanni. Stavamo alla Magliana, che allora era campagna e comunque il sabato non c’era più politica né niente, solo ingrassare gli scarpini prima di andare a giocare, mi ricordo ancora il macellaio e l’odore della sugna che usavamo. Non pensavo che avrei fatto questo mestiere, mi ero iscritto a psicologia, poi un mio amico mi disse che c’era un corso di teatro, ci provammo quasi per gioco. Quattrocento candidati per venti posti, a lui non lo presero, a me sì. Io quasi non accettavo, mi spiaceva per il mio amico, ma fu proprio lui a spingermi, ed è cominciata così. Erano anni pessimi per il cinema, c’era uno stop completo, mancavano i soldi, ma ho avuto la fortuna di cominciare in teatro con Luca Ronconi: per sei mesi ho fatto l’alabardiere. Stavo lì, immobile, con la mia alabarda, due ore e mezza senza dir niente, fisso, in piedi. E Ronconi mi diceva che dovevo pensare: sono un alabardiere, devo essere un alabardiere. Ma ero anche molto curioso, e lavoravo con gente di grande talento, e così prima mi leggevo i testi, poi stavo a sentire come loro dicevano le battute, e pian piano capivo come si legge un testo teatrale. Era anche questione di occupare il cervello, in quelle due ore e mezza, era quasi una pratica zen, non lo facevo per arrivare, ma più che altro per darmi un senso. Altrimenti, come giustificavo la mia vita, quelle ventiquattr’ore passate a Ivrea, o a Prato, e l’alabarda?

Pian piano migliori, diventi più sicuro: il talento, dicono. Ma il talento c’è per tutti, e sotto la parola talento si nascondono tante altre cose. Il talento va alimentato, nutrito, e soprattutto deve emozionarti. Chissà, magari io ho un gran talento come pattinatore artistico, ma il problema è che pattinare mi rompe le palle. Per questo studio, mi preparo, cerco di avere più informazioni possibili. Un attore può imparare dalla sceneggiatura, dalla letteratura o, se il personaggio è esistito davvero, dalle biografie, dai filmati, dalle interviste. Io leggo, e poi giro con un taccuino, mi segno tutto. Guardo i giocatori di tennis, vedo che hanno il braccio destro più sviluppato. Allora, se il mio personaggio gioca a tennis, avrà un modo diverso di camminare, o d’infilarsi la giacca. Prendo nota. Per il film che ho girato con Marco Tullio Giordana, Sangue pazzo, sulla storia di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, divi del cinema anni 30, mi sono studiato i cinegiornali, le fotografie, i film: volevo capire come vivevano i loro contemporanei. E alla fine puoi scoprire che grattarsi il naso, allora, era segno di grande maleducazione. Dopodiché, c’è lo stage business, Amleto entra in scena: come parli? Come ti muovi? Ne I demoni, di Dostoevskij, facevo lo studente, che era d’origine contadina: aveva le mani grosse, se ne vergognava, e allora dovevo recitare con le mani in tasca. Per tutto questo, a teatro hai a disposizione un mese e mezzo di prove. Al cinema, il primo giorno, ciak, si gira. Per questo devo sapere tutto prima, anche perché poi non sono mai soddisfatto, non riesco nemmeno a rivedermi nei film, sono totalmente irrequieto, quasi insopportabile. Che poi anche questo va bene, è un motore, ma funziona più per andare alla ricerca di me stesso che per il successo in sé. Ad averlo, il successo, ti dà il grande vantaggio di poter scegliere, di non fare le cose solo per la pagnotta, anche se poi devi avere il coraggio di scegliere, e non è facile. È come un viaggio: io devo andare a Milano, poi penso che a Caserta ci son delle mozzarelle meravigliose, sarebbe bello fare un giro. Sì, ma io devo andare a Milano, Caserta proprio non c’entra. Tocca rinunciare. Le carriere si costruiscono più con i no che con i sì, e certe scelte possono essere difficili, ma sono strategiche. Se uno fa Montalbano, non può contemporaneamente fare Totò Riina. Poi non ti capiscono più, non ti seguono.

Sono riservato, non amo la mondanità, non mi piace apparire: chi fa questo mestiere deve imparare a nascondersi, altrimenti finisce che nessuno crede più ai personaggi che proponi. Una cosa è l’attore, una cosa il personaggio Pippo Baudo se lo può permettere, lui fa se stesso. Un attore no. Certo, poi vedi queste ragazzine in discoteca che ti si buttano addosso, e capisci i colleghi che perdono la testa. Io, quando vedo quella che mi fa capire che ci sta, fingo di non capire; anche in questo caso, la libertà non è fare quello che ti pare, ma è la capacità di scegliere. Se mi faccio un nido, non rischio tutto per una ragazzina, anche per rispetto dell’impegno che ho preso. Se sono fidanzato, non considero nemmeno la possibilità di un’avventura. Insomma, se sei appagato, non lo fai. Da ragazzino ero impacciato, timidissimo. Mi piaceva da matti la biondina dell’ultimo banco, una volta mi chiese di accompagnarla a casa. Io ero sopraffatto, lei parlava e nemmeno la sentivo, poi siamo arrivati al suo portone e lei stava già entrando e allora, all’ultimo secondo, ce l’ho fatta, le ho chiesto: ti vuoi mettere con me? Proprio mentre il portone si richiudeva, in quell’esatto istante. Il primo bacio no, non me lo ricordo, ma non dimenticherò mai la prima volta che ho sentito il rigonfiamento dei seni sotto un golfino. Me lo ricordo ancora, quel golfino. Era d’angora. Da allora, sono un po’ migliorato, ma mica tanto. Sono sempre attratto da tutto quello che è femminile, anche perché sono maschio, ma ho comunque una parte femmina. Non cucino, nemmeno stiro, ma cerco di capire cosa c’è lì dietro. Ho un grande pudore a piangere, per esempio, ma al cinema non resisto. Mi avevano preparato una proiezione privata di Mio fratello è figlio unico, ero solo nella saletta, e non importa che ci recitassi anch’io, quando si sono accese le luci piangevo come un vitello. E poi c’è un film che ho visto centosettantasette volte, ma quando arrivano i soldi in La vita è una cosa meravigliosa io non resisto. Ogni santa volta. Ma è così, noi maschi piangiamo quando ci compiangiamo, quando ci rivediamo lì. Le donne hanno una sensibilità più universale, piangono anche per cose che non le riguardano. Noi siamo sempre meno articolati, nuotiamo in acque meno profonde. Io ho avuto il privilegio di essere sposato dodici anni con Margherita D’Amico, che non solo è una brava scrittrice, ma anche una delle teste migliori che conosco. Ci siamo amati molto, e quando è finita è finita malissimo, cioè, benissimo, senza strascichi. Non ho sensi di colpa, ma un grande dispiacere. Il senso di colpa è una brutta bestia, se so di aver torto devo assolutamente rimediare. Stavo con una ragazza da sei mesi, eravamo già in crisi, e non ho avuto il coraggio di chiudere. Ero in tournée, ho avuto una storia con un’altra, e gliel’ho detto al telefono. Una cosa brutta, me lo ricordo ancora. Ma lo ripeto, sono monogamo, non sono trasgressivo in nessun senso: niente droghe, al massimo qualche canna, qualche bicchiere di vino. Anche con gli amici, quando affiorano dinamiche da maschio dominante, cerco di tirarmi indietro, non mi va di essere il capoccia, che c’ha tanti diritti, ma anche tanti doveri. Rifiutare la logica del maschio alfa però non significa farsi trascinare dal branco. Anzi. Come diceva Visconti, i corvi volano a schiera, le aquile da sole. Sono un mediano, sì, ma rifiuto le logiche coercitive del gruppo: certo, se cadi non sei protetto, ma hai molta più libertà. Qualità e felicità fanno parte di campionati diversi, per la mia irrequietezza tendo alla felicità, che è qualcosa che devi rubare a tutti questi meccanismi. Godersi al sole un piatto di spaghetti alle vongole è sano. È bello pensare: oggi mi dedico questo. Ho conosciuto la mia fidanzata, Luisa Ranieri, sul set di Cefalonia. Se non fossi stato Luca Zingaretti, l’avrei conosciuta? Chissà. Magari, avrei fatto la comparsa in quel film, e l’avrei conosciuta lo stesso. Da allora, comunque, Luisa mi regala una cosa che a me fa difetto: la leggerezza».

«Lei non ha figli?».

«No».

«Come mai?».

«Non lo so».