L’appuntamento nel suo atelier di Malakoff, banlieue alle porte di Parigi, divenuta, grazie al fiorire di studi e gallerie d’arte, quello che erano Montmartre e Montparnasse agli inizi del ’900. Un artista che al centro delle sue opere mette da sempre temi forti come la perdita, l’inconscio e la memoria lo immagini con l’aria sofferta e l’atteggiamento grave. E invece, sorpresa!, Christian Boltanski ha uno sguardo bonario, sorridente. 66 anni, parigino di nascita ma di origine ucraina e corsa, esorcizza i limiti delle nostre vite con tutta la forza simbolica dei ricordi: foto, nomi, volti. Si oppone al tempo che scorre accumulando vestiti, elenchi telefonici, perfino il battito di 60 mila cuori nel work in progress Les archives du coeur, un database di pulsazioni raccolte durante le sue mostre.

Quest’anno rappresenta la Francia alla Biennale di Venezia. Nel padiglione dei Giardini, quattro opere ispirate a un tema che è tutto un programma: la chance. Una bella sfida per lui che, per una scommessa lanciata da un collezionista australiano, ha deciso di farsi riprendere 24 ore su 24 da tre telecamere fino al giorno della sua morte.

Perché proprio la chance, cioè il caso, il destino, l’azzardo?
Perché decide le vicende umane. Nei lavori a Venezia parlo anche di gioco, di fortuna. L’installazione dell’ultima sala è un monumentale video su cui sfilano frammenti di volti. Il visitatore può interagire con l’opera: premendo un bottone, l’immagine (come con le slot machine), si blocca per comporre nuovi visi. Se le tre parti appartengono alla stessa faccia, lo spettatore vince e si porta a casa l’opera esposta.

Si sente fortunato per essere stato scelto a rappresentare la Francia alla Biennale?
La mia chance - appunto - è stata realizzare lavori che, senza la Biennale, non avrei potuto creare.

Le sue opere trasmettono angoscia. Cosa la rende felice?
Tutto. Sono un bon vivant. Mi piace mangiare, bere. Lavoro su tematiche così complesse per sdrammatizzarle. Credo sia meglio parlare delle nostre paure invece di nasconderle.

Quindi si considera un ottimista?
La vita è inevitabilmente tragica. Siamo esseri unici, eppure di passaggio. Talvolta lo dimentichiamo, e siamo sereni. Ci saranno altri dopo di noi, nuovi artisti, io sarò dimenticato, ma la vita continua. L’ottimismo è pensare che tutto va avanti. Sempre.

Quanto incide il caso nelle nostre vite?
Moltissimo, tutto comincia già dal luogo in cui si nasce: paese, famiglia. Chissà quanti geni sconosciuti ci siamo persi... Da docente alla Scuola Nazionale Superiore di Belle Arti di Parigi ho conosciuto tanti potenziali grandi artisti. Poi, magari, si sono sposati a 20 anni ed è finito tutto lì.

Quanto conta per lei?
Molto. Ho una certa età, alcuni amici non ci sono più. E mi domando: perché loro sì e io no?

Qual è la fortuna più grande?
Fare quello che si desidera.

Quando pensa a un essere umano cosa le viene in mente?
Penso alla sua originalità. Nessuno è uguale a un altro e tutti finiremo nell’oblio: ci si ricorda del nonno, non del bisnonno. Ogni persona è così importante che vorrei conoscerla. Vorrei addirittura amarla, ma è impossibile.

Dato che è impossibile amare tutte le persone, come si può testimoniarne la presenza?
Guardandole. In modo che sentano il mio amore. Sono amico di Nan Goldin. Il travestito più estremo, fotografato da lei, accende l’empatia.

Il ricordo più bello della sua infanzia?
Stare in auto con i miei genitori. Dal finestrino guardavo i passanti e il traffico, ma mi sentivo protetto perché ero insieme a loro. La macchina era il mio guscio.

Non ha mai avuto figli. Perché?
Quando ero giovane mi sentivo troppo giovane, dopo troppo vecchio. Non ho mai trovato il momento giusto. I miei figli sono le mie opere. Però fare figli è il solo modo per sopravvivere. Ciascuno conserva nel viso delle tracce: il naso della bisnonna, la bocca di uno zio. Il viso è un puzzle di persone che non ci sono più.

Perché ha scelto di vivere a Malakoff?
Avevo bisogno di molto spazio e a Parigi era impossibile. Qui invece c’è tutto quello che mi serve. E sono a poche fermate da Montparnasse.

Qual è il suo ristorante preferito di Parigi?
Pranzo sempre alla brasserie Closerie des Lilas, a Montparnasse. Forse la cucina non è il top. Ma la tartare e il pesce non sono male.

La parola più sottovalutata oggi?
Comprensione.

E quella più sopravvalutata?
Denaro.

La sua opera d’arte preferita?
Les archives du coeur. È il lavoro che più mi rappresenta.

Ha detto di essere affascinato dalla menzogna: è ancora così?
Spesso la verità è così complicata che bisogna mentire.

Come realizza le sue opere? Ha molti assistenti?
Nessuno. Nel mio atelier sono solo. Non ho né segretaria né collaboratori e quando posso costruisco tutto con le mie mani. Ho bisogno di avere un rapporto fisico con le opere.

Ha amici nel mondo dell’arte?
Non ho molti amici, ma tutti i miei amici sono nel mondo dell’arte. Penso che ci si possa capire soltanto se si parla della stessa cosa.

Anche sua moglie Annette Messager è artista: c’è competizione?
Non avrei mai potuto vivere se non con una collega. Abbiamo regole precise: lei non entra nel mio studio, io non vado nel suo. Non andiamo mai ai nostri vernissage e non verrà nemmeno all’inaugurazione della Biennale.

Il suo albergo preferito di Venezia?
Il bed & breakfast Alle Zattere, la Pensione Seguso e la Calcina.

Il libro che ha sul comodino?
Une femme à Berlin, è l’ultimo che mi ha colpito. È il diario scritto durante i 15 giorni della presa di Berlino nella Seconda guerra mondiale. L’autrice non ha mai voluto fosse pubblicato quando era in vita e ha scelto di restare anonima.

Di cosa ha paura?
Di sapere di essere arrivato quasi alla fine. Anche di quest’intervista.