«Sbirra. Puttana. Pentita. Lorda. Fatica de notte, vrigogna de juarnu, malanova... ». Malanova, la cattiva notizia, come la chiamano in paese, la incontro per la prima volta nel commissariato di Taurianova quando ha appena 16 anni. Il suo nome è Anna Maria Scarfò. Oggi ne ha 24 e vive sotto scorta (ne avrete sentito parlare: ha da poco pubblicato per Sperling & Kupfer un libro scritto insieme alla giornalista Cristina Zagaria intitolato appunto Malanova - senza poter mai partecipare alle presentazioni per motivi di sicurezza). È sua madre a chiedermi di assisterla come avvocato. Quando ascolto la sua storia non posso sottrarmi. Perché Anna Maria è stata abusata due volte: la prima dal branco, che l’ha violentata per tre anni consecutivi (Anna ne aveva appena compiuti 13 quando tutto è cominciato, adescata da quello che lei credeva il suo primo amore). La seconda dall’ostracismo dei suoi concittadini, che sputano per terra quando la incontrano. La sua è la storia di una puttana di tredici anni (dice lei). La storia di una ragazzina tradita e violata, che nonostante tutto è riuscita a conservare la propria dignità, a ribellarsi, a trovare il coraggio di denunciare, per proteggere la sorella minore dalla stessa sorte - e finalmente se stessa (dice la giustizia). Cosa non facile, lo fa una su cento, e ve lo garantisco io che di situazioni come questa, nella mia vita di avvocato, ne ho incontrate parecchie. Tutti casi che ho sentito il dovere di assistere come professionista, ma soprattutto come donna.

Una questione di genere?

Certo, non ho alcuna difficoltà a riconoscerlo. Sbaglia chi crede che di queste battaglie non ci sia più bisogno. Ci sono ambienti dove le pari opportunità esistono solo sulla carta: la consapevolezza dei propri diritti è un lusso che ancora oggi non tutte possono permettersi. Per questo credo nell’educazione dei figli (dei maschi - ma anche delle femmine - nel dare e pretendere rispetto), e poi nella solidarietà al femminile: cose di cui c’è ancora estrema necessità. Nel profondo nord, in Veneto, in Friuli, così come nella mia terra (la Calabria), dove le storie di abuso sono le stesse, il maschilismo si respira nell’aria. E dove la violenza sulle donne nel 90% dei casi si consuma tra le mura domestiche.

Penso al caso di Marina, chiamiamola così, che a poco più di quarant’anni ha trovato la forza di separarsi dal marito (che la picchiava davanti ai bambini, la costringeva ad avere rapporti sotto la minaccia di una pistola), ma non riesce a liberarsi dalle sue ritorsioni: telefonate in piena notte, insulti in mezzo alla strada, ingiurie che le fanno terra bruciata attorno, la isolano dagli amici, la emarginano dal clan familiare e persino dai figli (maschi di 10 e 15 anni che trovano innaturale che la madre voglia sottrarsi al dominio del pater familias). Finché la donna, esasperata, decide di rivolgersi al mio studio per una tutela legale. Proprio negli stessi giorni viene approvata la legge antistalking, introdotta nel codice penale con decreto nel febbraio 2009. Ci sono tutti gli estremi per una denuncia (la persecuzione, le minacce, l’ingiuria), così decidiamo di procedere, nonostante i dubbi di qualche collega. Infatti durante il dibattimento la mentalità corrente emerge in tutta la sua prepotenza: l’uomo afferma convinto che quanto ha fatto è suo diritto perché «in fondo ero suo marito», e qualcuno la considera persino un’attenuante.

Anche contro questo “così fan tutti” ci battiamo con forza, sostenute dalla nuova legge. È la linea giusta, il tribunale dà piena ragione a Marina e condanna il marito con una sentenza storica: la prima pronunciata a Palmi per il reato di stalking. Forse anche per questa mia passione civile, abbinata alla fermezza, continuano a rivolgersi a me donne con storie difficili. Come Vittoria (altro nome fittizio), un’imprenditrice taglieggiata per 15 anni dall’usura. Ha una piccola attività commerciale, ma dopo alcuni furti e un incendio non riesce più a trovare credito presso le banche e fa l’errore di chiedere un prestito a un piccolo boss locale. Da quel momento precipita in un girone infernale, ed è costretta a cedere una a una le sue proprietà (appartamenti, terre). È sola ma indomita, non demorde. E proprio per questo suo non piegarsi, non solo viene ricattata ma anche minacciata di violenza sessuale, sottoposta alla solita gogna sociale: poco di buono, puttana, sozza...

Il gioco è sempre lo stesso

Maldicenza, isolamento. Nessuno studio legale vuole assumerne le difese. Quando si rivolge a me Vittoria è depressa, stanca, isolata dalla sua stessa famiglia (sì anche dalle donne di casa), ma il coraggio non le manca, vuole tutelare il proprio onore: a una richiesta come questa non sono mai insensibile. Così arriviamo in aula con fatti, nomi, cognomi.

Anche in questo caso ci battiamo contro malavitosi, delinquenza organizzata, ma soprattutto contro una mentalità che non accetta che una donna difenda il proprio lavoro senza affidarsi ai padrini. E anche in questo caso, dopo un dibattimento faticoso, vinciamo noi: il tribunale condanna l’usuraio, ordina il risarcimento.

Ma ciò che riesce sempre a stupirmi è la mancanza di solidarietà al femminile: un grande errore. Come possiamo non fare fronte comune tra noi? E poi chi è stata vittima, chi ha respirato violenza sin da bambina, spesso si trasforma a sua volta in carnefice. Per spezzare questa catena ci vuole aiuto. E credo che chi ne ha la possibilità non possa sottrarsi. Io per esempio faccio un lavoro che mi appassiona, ho potuto studiare, ho degli affetti, mi ritengo fortunata: sento che è mio dovere dare una mano.

Ecco perché non solo ho difeso Anna Maria Scarfò (la malanova) ma l’ho anche ospitata in casa mia per un certo periodo, quando la pressione su di lei si era fatta troppo forte. Vivo in un paese a qualche chilometro dal suo, ho un marito (anche lui avvocato), due ragazzini, un cane, un giardino con un roseto. Niente di speciale, ma è tutto quello che le manca in certi giorni: cose come il profumo d’arrosto la domenica mattina, una festa di compleanno, un po’ di musica, giocare con i ragazzini, potare le rose. Insomma una tregua. «Avvocato, ma voi vi prendete in casa la puttana di San Martino?», me lo sono sentita chiedere da un’altra signora che stavo difendendo da un marito violento, che con lei usava proprio lo stesso insulto. Ho dovuto ricordarle che il tribunale stava dando ragione alla ragazza, che la carità cristiana vuole che si difendano gli ultimi, ma la risposta è stata: «Chilla è davvero ultima, tutto il paese se l’è fatta...».

Ecco, il lavoro che trovo più difficile è quello contro i pregiudizi. Ma, nonostante tutto, le donne che hanno il coraggio di denunciare stanno crescendo. E dopo, nessuna vuole tornare indietro. Me lo confida anche Anna Maria sulle scale del tribunale di Palmi mentre ci fumiamo una sigaretta dopo la vittoria in primo grado. Sa che la aspettano altri due gradi di giudizio, che non le risparmieranno altre inesorabili domande, ma non intende mollare. Mi dice che quando veniva trascinata in campagna da quegli uomini, allora sì che si sentiva sfinita, ma da quando si è ribellata non è mai stanca, ha ricominciato a fare progetti. E io spero tanto che sia così, perché il prezzo che sta pagando è davvero alto: dopo otto anni dalla sua prima denuncia e quattro processi, le minacce contro di lei non si sono placate. Tanto che da questa estate ha dovuto accettare il programma di protezione che la legge sullo stalking mette a disposizione in questi casi. Se n’è dovuta andare da San Martino, dalla sua casa, dalla sua famiglia. Oggi ha 24 anni e neanche uno straccio di vita privata. Ma prima di partire me l’ha ripetuto: «Ne valeva la pena. Di sentirsi liberi non ci si stanca mai».

Testimonianza di Rosalba Sciarrone, raccolta da Anna Alberti.