Arrivo all’appuntamento al Cafè Sweet Melissa con una decina di minuti d’anticipo. Trovo Nicole Krauss seduta a un tavolino di legno con un sorriso abbozzato e le dita strette attorno a una teiera di ceramica bianca. È in posa per una fotografa svedese che scatta a ripetizione mentre le parla. Senza trucco, un maglioncino bianco con cerniera lampo e pantaloni neri, la scrittrice si passa le mani tra i capelli che le cadono fluenti sulle spalle. Nell’attesa esco a fare due passi.

Fuori, l’odore dell’inverno e un cielo plumbeo solcato da timidi raggi di sole. Siamo a Park Slope, Brooklyn, il quartiere di Nicole: un’oasi di quiete, con strade alberate, bambini che giocano ed eleganti brownstone monofamiliari. Non a caso l’associazione nazionale degli agenti immobiliari lo indica tra i quartieri residenziali più desiderabili d’America. Negli ultimi cinque anni è diventata la meta preferita da giovani artisti in fuga dallo stress della megalopoli. Sorpreso dal suono delle campane, cammino lungo 7th Avenue, adagiandomi nel ritmo lento da paese, scandito dalle vetrine bombate di negozi del primo novecento.

Dopo il successo internazionale di La storia dell’amore (Guanda) - 250mila copie, tradotto in 35 lingue - il nuovo romanzo della Krauss, La grande casa, ha galvanizzato la critica e proiettato l’autrice in un tourbillon di interviste, apparizioni televisive e book tour. Ma niente di questo traspare nella sua affabile disponibilità quando le siedo davanti. «Rispondere a troppe domande è controproducente. Ciò che è più misterioso e fragile del mio lavoro, svanisce se tento di racchiuderlo in risposte compatte, ma eccoci qua», e sorride con il suo volto intenso in cui bellezza e fragilità sembrano trovare un equilibrio perfetto.

Nicole dosa sapientemente ogni parola. La sua esistenza sembra svilupparsi dentro e attorno ai libri. Da bambina era insaziabile, con i romanzi ha scoperto il mondo: «Leggevo Il giardino segreto di Frances Burnett e facevo miei i sentimenti della protagonista». A 25 anni, ora ne ha 37, esce il suo primo romanzo, L’uomo sulla soglia. Il suo editore olandese le presenta Jonathan Safran Foer, con cui si sposerà nel 2004: un matrimonio nato da un libro. Nei suoi romanzi appaiono spesso altri romanzi come scatole cinesi. Libri nel libro, capolavori segreti per pochi lettori. I romanzi per lei sono come case ed è probabile che il senso dello spazio le derivi dal fatto che suo nonno e suo padre (che poi ha fatto l’ortopedico), erano ingegneri; anche l’edificio dove è cresciuta, un gioiello stile Bauhaus a Long Island, deve avere lasciato il segno.

Il titolo La grande casa si riferisce trasversalmente a un’idea grandiosa: un libro che possa racchiudere una città. Il come e il quando il lettore lo scoprirà a dieci pagine dalla fine. Giovani, belli e di talento, Nicole e Jonathan sono la coppia letteraria americana del momento. Ma, questione di stile, scelgono un basso profilo, evitano eventi mondani e tengono separati i reciproci impegni professionali. «Vogliamo che la nostra vita privata resti privata». Marito e moglie hanno approcci alla letteratura distinti ma sono entrambi molto interessati all’identità ebraica da cui, pur mediata, emerge l’ombra lunga dell’Olocausto.

Da studentessa, incoraggiata da Joseph Brodsky, scriveva poesia: «L’unità base della letteratura è la metafora. Si prendono due cose apparentemente slegate e si uniscono con un ponte dando vita a qualcosa che prima non esisteva. Amiamo le metafore perché ci danno l’illusione che tutto nel mondo sia collegato». Il suo ultimo romanzo - nato come short story - è una unità coerente: le parti si collegano attraverso ampie connessioni metaforiche. Quattro voci narranti si alternano in una serie di “confessioni” legate dal passaggio di una scrivania con 19 cassetti. Quattro storie in movimento tra New York, l’Europa, Israele e il Cile di Pinochet. Ognuna stabilisce un rapporto simbolico diverso con una scrivania, che potrebbe essere la stessa. «Solo dopo aver finito il romanzo, mi sono accorta che la scrivania assomiglia alla mia: una massa enorme di legno incastrata tra le pareti del mio studio. L’ho ereditata dal proprietario precedente della casa. Per rimuoverla dovrei distruggerla...». Ma nell’epoca del laptop, la scrivania non è più uno strumento essenziale. «Mi piace pensare che posso scrivere ovunque, un terzo di questo romanzo è nato alla New York Public Library».

Avevo visto la Kraus in televisione e nei dibatti pubblici, e sono rimasto colpito dalla sua intelligenza ondivaga, ma anche da un’aria distante. A quattrocchi l’impressione si ribalta: trasuda passione, urgenza di essere capita fino in fondo. Uno dei temi del libro è come si trasmettono gli oggetti e il bagaglio culturale da una generazione all’altra. Nicole, che durante la stesura era incinta del secondo figlio, spiega: «Mi chiedevo cosa sarei stata capace di trasmettere ai miei figli. Desideravo ardentemente che i bambini fossero felici. Sapevo di avere una grande attitudine alla felicità, ma anche una altrettanto grande attitudine alla malinconia. Temevo che gli avrei trasmesso quest’ultima per osmosi. Siamo abituati a dare troppa importanza alla felicità! È bello essere felici, ma mi sembra ancora più importante essere aperti alla grande varietà di esperienze della vita». Gli stessi temi ricorrono di romanzo in romanzo: la memoria come meccanismo creativo, la capacità di reazione davanti a eventi catastrofici, l’amore in momenti disperati. E ancora la difficoltà nel comunicare avvertita con particolare intensità dai tanti personaggi/scrittori.

Ne La gande casa troviamo Nadia che per scrivere ha bisogno di isolamento emotivo; Dov, scrittore senza lettori e Lotte, che filtra le proprie esperienze attraverso racconti ermetici. «Nella mia vita, la scrittura rappresenta il massimo sforzo per essere capita, per rivelarmi. Attraverso i miei personaggi ho voluto affrontare i costi di questo sforzo». Ma come riconciliare l’esigenza di silenzio e concentrazione della scrittura con quelle di due figli piccoli è una domanda a cui non vuol rispondere: «Ho poche regole, ma una è di non discutere la mia vita privata», dice con decisione, poi con un largo sorriso aggiunge: «Non sento conflitto tra maternità, matrimonio e scrittura. La vita è più ampia di quanto non si pensi: anche in famiglia c’è spazio per la solitudine, basta crearselo».

Ha un modo di scrivere molto personale ma, ci tiene a dirlo, mai autobiografico. «Finire un romanzo è rivelarsi al mondo senza protezione ». E in questo è simile alla sua esperienza di madre: «Ti senti senza pelle... Tutto acquista intensità, vivi la vita come non l’avevi mai sentita». Stringe gli occhi che diventano fessure: «Sia il dolore che la gioia sono decuplicati. Una massa di sentimenti che non sapevi di avere sgorga senza freni. Uno dei miei personaggi parla di piccoli abissi in cui sprofonda. Anche a me capita spesso: cammino per strada e all’improvviso mi sento sprofondare in abissi emotivi. Con il tempo ho imparato a riconoscere queste tempeste di sentimenti, ma non si quietano». Naturalmente le differenze tra offrire al mondo un libro e mettere al mondo un bambino sono marcate. «Un libro è un’esperienza mia. Non condivisibile. Invece avere un figlio è talmente coinvolgente da farti pensare che non hai più un’identità autonoma... Nei mesi dopo il parto mi sembrava che la mia mente fosse legata a cavalli selvaggi che la sbattevano di qua e di là nella loro corsa folle».

Nel romanzo due personaggi lamentano l’angoscia di non saper proteggere i figli. «Diventare genitori», spiega, «vuol dire diventare consapevoli dei nostri limiti. Pensiamo che il nostro compito primario sia difendere i nostri figli. E contemporaneamente scopriamo che la loro vita è fragile. Viviamo con un desiderio fortissimo di tutela e con la consapevolezza che non è possibile: non esiste protezione assoluta». Quando le chiedo come spiega che i giovani scrittori americani parlino tanto d’amore e poco di sesso, fa una lunga pausa: «Non ho pudore nel descrivere atti sessuali. In La grande casa ci sono scene di sesso piuttosto esplicite, se non ce n’erano negli altri miei romanzi è solo perché le storie non le richiedevano».

Come le persone, anche i libri discendono da altri libri. E nei suoi, gli antenati sono facilmente riconoscibili: «Mi piace permettere agli autori che amo di insinuarsi nel mio lavoro. Bruno Schulz per esempio è stato una presenza guida nello scrivere La storia dell’amore, sono felice se la sua voce ha trovato spazio nella mia». In questo periodo la sua passione è Thomas Bernhard. «Lo leggo in maniera ossessiva. Mi affascina il suo modo di riconciliare odio e amore. Era un misantropo con un senso dell’umorismo avvelenato che pure riesce a trasmettere una profonda umanità».

Ai suoi bambini legge un po’ di tutto, «hanno una biblioteca grande quasi quanto la nostra! E hanno ereditato tutti i miei libri per bambini». Quest’estate con Sasha, 5 anni, ha iniziato un progetto di lettura ambizioso: un libro sui miti greci e 600 pagine di una versione per bambini dell’Odissea. «Si è appassionato moltissimo, riesce a stabilire connessioni incredibili». “Sasha è ossessionato dalla morte. Ho citato alla lettera una sua frase in La grande casa, quando il personaggio di Dov da bambino si domanda se da morti avremo fame... Un giorno gli stavo leggendo nella vasca da bagno l’episodio di Ulisse che scende nel mondo dei morti dove trova lo spirito della madre. Cercavo di spiegargli cosa sia lo spirito, inteso come ciò che resta dopo la morte. E lui: “Credo di aver capito, quando si muore ciò che resta è il nostro amore”. Strabiliata chiedo: “Da dove hai preso questa bellissima idea?”, e lui convinto: “Dai, è la fine del mito di Apollo, quando Dafne è trasformata in albero e l’unica cosa che resta è il loro amore”».

I diritti per La grande casa sono già stati acquistati in trenta paesi (prima dell’uscita in America lo avevano venduto in diciotto). «Lo trovo stupefacente! Quando penso che ognuna delle parole su cui ho sudato sarà sostituita da un’altra, scelta da un traduttore, mi sento smarrita. Eppure, con poche eccezioni, la letteratura che amo di più mi è arrivata in traduzione».

Un’ora e mezza è volata via. Un’altra giornalista si avvicina al nostro tavolo, osservo Nicole che si prepara, come prima di un tuffo. In qualche modo deve esporre di nuovo il fiume in piena delle sue emozioni. Alza lo sguardo, abbozza il suo sorriso leggermente asimmetrico, e si tuffa.