Amate fate quello che volete, amate fate quello che volete: non aspettate” invece, pur continuando ad amare, abbiamo aspettato lui, Vasco Brondi, tornato con un disco magnifico, che scende un po’ come gli Unni dal Grande Nord, o come il Po che inonda la Bassa. Sai che può succedere ma non fai nulla per prepararti in qualunque epoca tu ti trovi. Il paesaggio dopo la battaglia è il primo album che riporta il nome Vasco Brondi e non Le luci della Centrale Elettrica. È un disco che inizia con 26.000 giorni (“siamo qui per rivelarci, non per nasconderci”) e che si conclude con Il sentiero degli dei (“cosa volevi siamo lontani, sono saltati tutti i piani”). Seduto per terra nel suo salotto “dopo un mese che non torno a casa, appena sceso dall’auto” Vasco è tornato, a curarci con le parole anche se “farei due o tre anni sabbatici ogni volta”.

Quando inizia il tuo prossimo anno sabbatico?
Mi vien male a guardare Google Calendar, un anno di lavoro ogni 3/4 anni mi tocca… Le date del tour sono bellissime (qui tutte le date ndr). Da Fiesole all’Anfiteatro al Vittoriale, nella casa tra realtà e sogno, un luogo che amo.

Quanto influisce l’ambiente in cui suoni sul concerto stesso?
Alla fine nella musica tutto è super trasparente, guardi attraverso le canzoni: ci vedi chi ha suonato con te, come sta chi canta, in un concerto ancora di più, e certo una location può influenzare molto tutto questo. Un concerto è un cortocircuito tra gli elementi, niente è impermeabile ma questo è il mistero della percezione: tipo a volte sembra che tutto è andato benissimo e poi riascolti il concerto e non era tutto a posto e viceversa. Ci sono delle cose un po’ misteriose sull’alchimia del perché un concerto venga bene oppure no. E quindi può venire bene nel parcheggio di una periferia chissà dove quanto al Vittoriale.

Mostri spesso la gratitudine per chi ti ha aiutato a concepire questo lungo progetto.
Mi sono circondato di persone, è il mio primo disco da solo ma è solitario per modo di dire: è solitario il mio nome ma eravamo in tantissimi a lavorarci, tutt’ora sento il sostegno delle persone che credono in questo album nato autoprodotto e finito terzo nella classifica dei dischi più venduti, secondo in quello dei vinili. Questo mi dà la possibilità di seguire la strada che nessuno mi indica, perché comunque ho il supporto delle persone che mi seguono, che può non essere il pubblico da stadio ma che, pur non essendo infinitamente numeroso, è di reale supporto per quello che faccio.

Sento il loro essere dalla mia parte, nel seguirmi nel pop impopolare che faccio.

Sei tornato con due singoli che sono per chi ti scopre ora e per chi ti voleva bene prima, Ci abbracciamo e Chitarra nera.
Sono state le prime due canzoni che sono uscite, una diversa dall’altra, e ho pensato: e ora quale strada prendo? Pensavo che una delle due sarebbe stata sacrificata per il disco, poi invece ho pensato che fossero i poli opposti e che in mezzo poteva starci tutto il resto. Le canzoni con il tempo, il lavoro, possono diventare sempre più un contenitore ospitale, ampio, dove trovano spazio stati d’animo, ricerche…

Sei una persona ospitale?
Penso che lo debbano dire più gli altri di me. Ognuno tenterà di dire “sì”.

Ho la sensazione che il baricentro di questo album sia Mezza Nuda, dove c’è una forma di ospitalità speciale: ricordare senza rabbia.
Ne parlavo con Lorenzo Jovanotti, mi diceva che nelle mie canzoni lo colpisce la pietas che trova, che forse è un po’ questa ospitalità di cui parli tu. È un polo di accoglienza non giudicante, è ciò di cui è fatta la nostra consapevolezza, quello che entra nella nostra consapevolezza non è “è bello è brutto”, ciò di cui siamo fatti davvero è il nostro campo di consapevolezza, quello è al di là del conoscere, ha a che fare con l’amore, l’amore c’è quando non c’è giudizio.

Quando sei arrivato a questa consapevolezza?
È l’inevitabile percorso di evoluzione, che parta dalla psicoterapia o dalla meditazione, dal lavoro corporeo. A un certo punto ci accorgiamo cosa ci contraddistingue come esseri umani. Fare una riflessione sul fatto che non dobbiamo sempre coincidere con gli oggetti della nostra consapevolezza, gli oggetti sia esterni che interiori come i nostri pensieri. Come esseri umani continuano a scambiarci emozioni, pensiamo di essere l’emozione che ci guida in quel momento, crediamo di coincidere con tutto questo, invece abbiamo la possibilità di contenere ciò e ospitare molto altro. Come il fatto che sembriamo programmati, accecati dal vedere le cose che non vanno e non a vedere tutte quelle che funzionano benissimo, che non ci stanno bombardando, che non ho mal di denti, che sono vive delle persone che amo, imparare a riconoscere le benedizioni che abbiamo.

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Max Cardelli

A proposito di benedizioni, nei tuoi testi/vita ci sono le montagne e i boschi, l’Adriatico piatto e vivo, sono le tue nature?
Sono la più preziosa forma di consapevolezza che abbiamo. Uscire dalle leggi della città ci aiuta a portarci vicino alle leggi dell’universo, le leggi della città sono specchi tra ambizioni e preoccupazioni, sono molto miopi, a volte. Anche noi stessi spesso introiettiamo il modello delle macchine: ci frustra se non funzionano come una macchina, se giorno, notte, estate, inverno non rendiamo nello stesso modo, pretendiamo da noi stessi una resa costante, sembra che tutti la pretendano da noi. Uscire dalla città, raggiungere le montagne ci permette di capire che siamo molto più simili alle montagne, ai laghi, siamo fatti delle stesse sostanze, proveniamo da questa roba qui e ci torneremo anche. Massimo Zamboni ha appena finito un libro che parla delle sue zone dell’Emilia, in un incontro ha creato il gelo intorno dicendo “mi interessa tanto conoscere la mia terrà perché sarà dove poi finirò, e io quella terra la voglio conoscere prima”.

In questo album c’è molto privato messo a nudo, grazie al tuo dizionario generoso. Hai paura del voyeurismo, che qualcuno entri troppo nella mappatura fisica ed emotiva di ciò che racconti?
Alla fine credo di essere anche troppo discreto, sempre, ma non ho paura perché mi sono accorto che “siamo qui per rivelarci, non per nasconderci” (da 26.000 giorni ndr), una frase che per me è stata un po’ un mantra. Mi sono reso conto che più ci si apre con gli altri, sia in una canzone che con la persona che abbiamo di fianco, più si prende coraggio, non aumenta la paura, aumenta il coraggio. Più ci si rivela più ti senti forte. Non parlo di quella che Byung-Chul Han chiama la Società della Trasparenza, di mettere i tuoi cazzi online di continuo, parlo di dire la verità. Penso che solo questo vada davvero detto, il resto si mischia con il rumore di fondo.

Che cosa ricordi di Franco Battiato?
Ho vari pezzi di vita legati a lui, lo ascolto da quando sono ragazzino. Ho un momento epifania verso i 20 anni, su una corriera in Bosnia, lettore cd portatile, in estasi ad ascoltarlo. Lì ho capito le potenzialità trascendenti nelle canzoni, ho sentito per la prima volta delle parole, posti, riflessioni che mai avevo sentito, e mai nessuno aveva messo in un testo prima di lui. Durante quel viaggio ho capito l’altezza raggiunta da Battiato. Poi ho avuto la fortuna di incontrarlo due o tre volte e mi ha colpito moltissimo la sua accoglienza quando ti incontrava. Io andavo con reverenza e non volevo mai fare questi incontri perché sono molto timido, e poi so che non cambia niente stringere la mano a uno che ha altre cose per la testa, lui invece era accogliente, ti guardava negli occhi, ti stringeva la mano come se ti conoscesse già, aveva un’apertura che mi ha stupito. Tre anni fa siamo due/tre giorni a Milo insieme, quando ha fatto l’ultima esibizione live al suo festival Luce del Sud, mi aveva invitato, e l’ho vissuto con ritmi diversi.

Se ti potessi trovare oggi faccia a faccia con il te 20enne, al bancone del bar in cui lavoravi che cosa vi direste?
Me lo sono chiesto, ho messo un po’ questa riflessione nel libricino che accompagna il disco, Note a margine e macerie, dove ci sono tutte le esondazioni dalle canzoni: diario di viaggi interiori perché quelli esteriori non si potevano fare. Nel risolvere le canzoni mi chiedevo che cosa avrei fatto a 20 anni con questi pezzi? E ho capito che potevo attingere a quella dose di ignoranza delle regole che per me è stata fondamentale quando ho iniziato a suonare. Al me 37enne ricorderei che è molto importante non conoscere le regole del gioco, io me ne allontano sempre per riavvicinarmi come se non le conoscessi mai. Per la prima canzone, Chitarra nera, non mi sono neanche accorto che dovesse avere le regole della canzone, ho seguito il filo della verità, di ciò che stavo raccontando. Non sapere che cosa va di moda tutt’intorno è qualcosa che mi caratterizza, ora meno, ma a 20 anni molto di più. Quando ho fatto il mio primo disco per me il mondo musicale si era fermato agli anni 90: sono uscito nel 2008 come se fosse nel 1994 ed è sembrato una cosa nuova, vera, perché i gruppi indie italiani cantavano in inglese con l’estatica del carino.

La tua è una capsula del tempo, si va avanti e si va indietro, si sta nel presente.
In questo disco c’è più passato, gli altri album erano tanto futuro e presente. Me ne accorgo a posteriori anch’io. Le mie capacità decisionali sulle canzoni sono rimaste bassissime, mi accorgo dopo cosa c’è dentro, compreso questo tempo verbale del passato. Chitarra nera e Città Aperta partono dal mio primo disco, anche i protagonisti delle canzoni sono gli stessi che per me hanno dei visi, li rivedo 15 anni dopo, c’è passato ma anche presente, sono dei romanzi di formazione.

Ripeti “Suoni e fai pubblicità”: dalla tua personale capsula c’è qualcosa che salvi di questo momento storico, pandemico, distopico?
In effetti cerco di preservare le mie canzoni dall’attualità perché penso debbano avere sempre una scintilla di eternità. L’attualità ha più a che fare con la notizia che vale cinque minuti, figlia dell’industria informativa. Sicuramente i CCCP dicevano “la situazione è eccellente, non a Berlino ma a Carpi”. Questa situazione come tutte le altre non è migliore o peggiore a prima, è così com’è, anche prima della pandemia eravamo a lamentarci con lo stesso tono. Spero ci sia un’inevitabile evoluzione umana, almeno finché riusciremo a vivere su questo pianeta, che è data dalla consapevolezza di vivere nelle cose, cominciare a dare importanza ad ambientalismo, uguaglianza di genere, ognuno deve farsi forte nel salvaguardare i diritti delle altre persone, piano piano lasciare da parte il nostro specismo e lasciare diritti anche agli animali. Questa è una via di evoluzione che sta cambiando rispetto a dieci anni fa, secondo me ci sono un sacco di cose che stanno andando nella direzione giusta.

Chi vorresti abbracciare ma non hai mai fatto?
(Prende una lunga, lunga pausa) Difficile, ci sono tante persone. Suonerà snob ma non ho la tv, sembra che tutti siamo omologati a guardare le stesse serie televisive, a guardare addirittura Masterchef quando potremmo passare il nostro tempo con le donne e gli uomini più intelligenti e generosi della storia attraverso le loro opere d’arte, libri, film, filosofie, persone che da altre epoche ci hanno lasciato generosamente i loro punti di vista. Mi viene in mente Tondelli, lui è una persona che avrei voluto abbracciare e ringraziare. Mi commuove sempre quando leggo di un suo amico che è andato a trovarlo in ospedale negli ultimi giorni della sua vita e gli ha chiesto come stava, lui ha risposo “Infinitamente triste perché penso che passerò alla storia come uno scrittore emiliano minore. Non ho lavorato abbastanza, non mi sono impegnato abbastanza”. Mi ha commosso tantissimo leggerlo, avrei voluto abbracciarlo e dirgli “guarda che le cose che hai fatto per me sono eterne e mi hai anche cambiato la vita”.

È bello che tu sia tornato anche se non te ne sei mani andato. Ci sono, mi immergo a fasi alterne
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Valentina Sommariva