“Ero una delle numerose donne comuni, non famose, che cercavano di fare il proprio lavoro e che sono state abusate da Harvey”. Harvey è Harvey Weinstein, il principale e più famoso accusato di abusi sessuali che -semplificando molto- ha dato via al #MeToo. E a due anni dalla diffusione del movimento internazionale/intergenerazionale/intersessuale che ha portato all’attenzione dolorosa del mondo ogni tipo di molestia legata alle sproporzioni di potere, il primo grande accusato è stato indicato da tantissime donne quale molestatore seriale indefesso, troppo facilmente intoccabile data la sua altissima posizione. Star come Uma Thurman, Salma Hayek e Rose McGowan, ad esempio. Ma anche ex collaboratrici, dipendenti, modelle e aspiranti attrici, molte hanno rivelato come e quanto sono state molestate verbalmente, psicologicamente e fisicamente dal produttore della Miramax. Alle loro voci si è aggiunta quella fortissima di Rowena Chiu ex assistente di Weinstein, che lucidamente sul New York Times ha raccontato la sua storia personale.

Ventuno anni di paure, una vita intera di mutismo forzato. Tutto inizia nel 1998, Rowena Chiu si era appena laureata in Letteratura a Oxford. Ma il suo sogno era lavorare nel cinema, contribuire all’industria più celebre del mondo. Figlia di immigrati cinesi che aspiravano ad avere una figlia avvocato o medico, Rowena Chiu rimase stupita quando venne accettata per un colloquio alla Miramax: si trattava di seguire le produzioni europee del tycoon più celebre del cinema, Harvey Weinstein. Che aveva già una sinistra fama nei corridoi dell’industria: “Quando la mia futura collega Zelda Perkins mi fece il colloquio, mi avvisò che il mio potenziale capo aveva una reputazione di comportamenti inappropriati ed esplosioni di rabbia, ma dovevo confrontarlo duramente e sarebbe stato tutto a posto”. Le prime avvisaglie del carattere di Harvey Weinstein Rowena Chiu le ebbe durante la promozione di Shakespeare In Love con Gwyneth Paltrow, altra star che anni dopo avrebbe parlato delle molestie subite, ma fu una specie di prova generale del comportamento che il produttore pretendeva dalle sue sottoposte.

Alla Mostra del Cinema di Venezia di quell’anno, pochi mesi dopo, Rowena Chiu fu molestata. Non servirono a nulla i doppi collant che aveva indossato come un'arma ingenua e possibile deterrente, e nemmeno le preghiere di smettere. “Solo un colpetto e sarà tutto finito”. La fuga servì parzialmente: “Credo che Harvey immaginasse che potesse esserci un’altra sera per continuare la storia, e metà del divertimento veniva dalla caccia, l’opportunità di prolungare una situazione in cui poteva esercitare il suo potere” scrive la Chiu. Ma le conseguenze di quell'abuso arrivarono con la potenza devastante di uno tsunami: dopo aver confessato alla collega Perkins cosa avesse subito dal boss, Rowena Chiu si trovò isolata. Le denunce andavano a vuoto, non c'era alcuna volontà di raccogliere prove e certificare le accuse a Harvey Weinstein. Le parole delle due assistenti venivano minimizzate, veniva loro consigliato di lasciar perdere in mancanza di avvocati sufficientemente aggressivi. Mesi di pressioni dirette costrinsero Rowena Chiu a firmare un non-disclosure agreement che di fatto le impediva di raccontare cosa fosse successo anche ai terapisti, e la costringeva a tracciare e identificare anche le poche persone cui lo avesse detto. Ridurre la sua assistente al silenzio costò a Weinstein appena 213mila dollari di patteggiamento. Per Rowena Chiu si spalancarono le porte di un inferno personale.

Nessuno voleva assumere una giovanissima ex dipendente che non si sapeva perché fosse uscita dalla Miramax così di soppiatto: ai colloqui la chiamavano ma non la assumevano. Alla fine fu costretta ad accettare un posto nuovamente alla Miramax, ma nelle divisione asiatica a Hong Kong, probabilmente arrangiato da Harvey Weinstein in persona per continuare a controllarla da lontano. 20 anni di pensieri ruminanti, di domande, di “e se” mai risolti. “Ho passato decenni a lottare con il senso di colpa di aver accettato quel lavoro, di non aver lasciato la stanza, che in qualche modo fosse colpa mia, che non avevo respinto Harvey in modo duro come doveva essere, e che forse non ero forte abbastanza per lavorare nell’industria del cinema”.

Nella sua lucida analisi di ciò che avvenne e di come si struttura la gerarchia del potere, Rowena Chiu individua i capisaldi che hanno permesso alle persone come Weinstein di continuare a comportarsi impunemente contro le proprie dipendenti. “Ci ho rimuginato spesso per capire come sono caduta nella trappola di Harvey, e il modo migliore per capirlo sono le quattro dinamiche di potere: genere, razza, anzianità di servizio e benessere economico”. Un poker di parametri che nella relazione professionale con Harvey Weinstein pendevano tutti dalla parte di lui: una donna (genere) di origine asiatica (razza) che era ai primi mesi di lavoro (anzianità di servizio) e guadagnava poco (benessere economico), non poteva farsi valere a sufficienza. Doveva restare subalterna. Non c’era parità, a Weinstein la posizione da superiore serviva, e applicava ogni singola tecnica allo sfruttamento del suo potere.

Ma anche dopo essere uscita dalla sua zona di controllo, Rowena Chiu ha dovuto vivere a lungo con la paura delle conseguenze delle sue azioni: “Avevo il terrore degli abusi, del potere di Harvey, che la storia tornasse a farmi venire gli incubi, che avrei inavvertitamente rotto la promessa di non parlarne più”. Nel frattempo Rowena Chiu si è sposata e ha avuto quattro figli. Solo la lenta presa di coscienza della sua condizione di vittima sopravvissuta, ma soprattutto di testimone vocale di un pezzo di storia del caso Harvey Weinstein l’hanno convinta a rivolgersi alle giornaliste del NYT che stanno alimentando la sezione She Said con le storie di chi ha subito molestie e abusi. “Ero stata ridotta così in silenzio che anche se avevo avuto un ruolo centrale in una storia che aveva scatenato un movimento globale, non avevo partecipato. Essere rimasta in silenzio era diventato cruciale per la mia identità, sia come donna sia come persona di colore”.

Oggi che Rowena Chiu ha parlato con il quotidiano statunitense e anche al Today Show, i tentacoli di Weinstein hanno provato a spegnere ancora una volta la sua voce. L’ex produttore ha negato ogni suo coinvolgimento e ha provato a denunciarla a sua volta sostenendo che avessero avuto una relazione amorosa di sei mesi. “Confondere le acque è l’atteggiamento tipico del molestatore” sostiene la Chiu. E la sua testimonianza si conclude nel più struggente dei modi: la speranza. “Sono contenta che mi fermino per strada per parlare di #MeToo, sono felice che i miei figli sappiano il mio segreto, e sono grata della possibilità di essere onesta con la mia famiglia e con i miei amici, che mi hanno offerto sostegno. Non sono più frenata da un segreto doloroso, finalmente è venuto alla luce”.