Renée Zellweger prima, durante e dopo. Il "dopo" ci ha messo quasi quattro anni per arrivare, ma alla fine eccolo qua, ben visibile sul suo volto e sul suo fisico. Nel 2016, su un noto red carpet, si era presentata portando scompiglio tra i fotografi non perché fosse la super star conosciuta in tutto il mondo soprattutto grazie alle sue tre interpretazioni di Bridget Jones, ma perché gli stessi non capivano chi fosse, tanto erano cambiati i suoi tratti somatici. La sua fisionomia non era più la stessa: basta faccione gonfio, basta chili superflui, ma un volto talmente nuovo da renderla – è il caso di dirlo – irriconoscibile anche dal suo fan più sfegatato. Ieri sera, invece, a Los Angeles, sul tappeto rosso dei Golden Globe 2020, abbiamo assistito alla sua rivincita. La Zellweger è tornata in qualche maniera se stessa - se così si può dire – e ha conquistato tutti con il suo lungo abito di Armani Privé di colore celeste, dagli stessi fotografi al pubblico di amici/nemici e colleghi presenti al Beverly Hilton per la 77esima edizione della kermesse. Un nuovo volto per lei più vicino all’originale, più vicino alla Bridget Jones di sempre a cui in molti sono affezionati. Praticamente lei ha fatto quello che, pochi anni or sono, ha fatto la sua amica e quasi coetanea Nicole Kidman che – finalmente – è tornata anche lei a connotati nuovi, sempre plastici, ma decisamente più naturali.

NBC's "77th Annual Golden Globe Awards" - Red Carpet Arrivalspinterest
Todd Williamson/NBC//Getty Images

“Renée is back”, ci vien da gridare, anche perché lei, ieri sera, ha vinto il Golden Globe per la Migliore interpretazione drammatica con Judy, il film di Robert Gold che ripercorre le luci e le ombre della bambina-prodigio del Mago di Oz dipendente dai farmaci e strappata all’infanzia troppo presto. Un film che non brilla per sceneggiatura, ma dove a brillare è solo lei regalando un’interpretazione perfetta da confonderla, quasi, con l’originale, dal modo in cui si siede a tavola a come si versa un drink, da come tiene il microfono a come si emoziona, trattiene le lacrime o contiene la sofferenza, senza dimenticare, ovviamente, la maniera in cui canta. «Ci sono voluti mesi di prove negli studi di Abbey Road», dichiarò lei stessa alla prima mondiale del film. «Tutte le volte che pensavo di non farcela, Rupert (il regista, ndr) mi spingeva a fare meglio. Questo film è stato davvero uno sforzo collettivo o, come dico sempre, un insieme di tanti piccoli esperimenti che alla fine ci hanno portato qui. Ogni giorno, sul set, era come una piccola, grande celebrazione del talento di questa artista straordinaria». Ieri sera, però, durante la cerimonia trasmessa in Italia da Sky Atlantic, ha preso in mano il Golden Globe, ha salutato i presenti con un semplice e banale “è bello vedervi avervi tutti qui” fino a riprendersi con una frase dritta al punto ed efficace. “Non importa arrivare al vertice – ha detto visibilmente emozionata – perché quel che conta è il viaggio, il lavoro: grazie a tutti che mi avete dato un calcio dove serviva per farmi lavorare di più”.

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Todd Williamson/NBC//Getty Images

Sono seguiti applausi, anche dalle quattro colleghe sconfitte: Cynthia Erivo per Harriet, Saoirse Ronan per Little Women, Charlize Theron per Bombshell e Scarlett Johansson per Marriage Story. A rappresentare – e a vincere come “Best Performance by an Actress in a Supporting Role in Any Motion Picture” – per il toccante e bel film di Noah Baumbach distribuito da Netflix, ci ha pensato l’attrice Laura Dern, avvolta da un lungo abito Saint Laurent creato appositamente per lei da Anthony Vaccarello. L’attrice americana ha vinto come attrice non protagonista per la parte dell’avvocatessa divorzista in questo film che ha ricevuto 6 candidature ai Golden Globe, un’interpretazione che le era valso il plauso generale già alla première durante la scorsa Mostra del Cinema di Venezia. Ma questa è un’altra storia, che – magari per lei – torneremo a raccontarvi dopo gli Oscar. Chissà…

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Daniele Venturelli//Getty Images