Quando si incontra Cate Blanchett, attrice premio Oscar, futura presidente di giuria alla Mostra del Cinema di Venezia 2020 e madre di quattro figli, ci si aspetta di trovare una donna statuaria, forse persino algida. I giornali amano apostrofarla “la divina”, come Greta Garbo, o "Queen Cate". Niente di tutto questo, si siede sul divano a breve distanza e come primo argomento parliamo di Rooney Mara, sua coprotagonista in Carol, dove interpretano due amanti nella New York anni 50, e collega nel futuro film di Guillermo del Toro Nightmare Alley: «È una ragazza intelligente e di grande stile». Blanchett ama fare i complimenti ad altre donne e non c’è niente di più piacevole da sentire. Cate saprà essere una buona amica: «Penso di sì. Mantengo tuttora le amicizie d’infanzia. Da una parte serve impegno per curare i rapporti, dall’altra però non puoi nemmeno forzare le cose. Per me è cruciale l’onestà. La collaborazione, non la competizione, celebrare le differenze e non solo soffermarsi sulle somiglianze». Ma probabilmente non vi farà gli auguri di compleanno, ride: «Ricordo quello dei miei figli ma per il resto sono senza speranza. Forse perché a casa si celebrava la festa della mamma, ma i compleanni non erano fondamentali».

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Con la figlia Edith Vivian Patricia (5 anni) adottata nel 2015. Ha altri tre figli: Dashiell John (18), Roman Robert (15), Ignatius “Iggy” Martin (11).

La casa di cui parla era nei sobborghi di Melbourne, dove è cresciuta con una madre insegnante australiana e la nonna, mentre il padre texano è mancato per un infarto quando lei aveva solo dieci anni. La casa di oggi è invece quella nel Sussex, dove abita con il marito, lo sceneggiatore e regista australiano Andrew Upton, e i quattro figli, tre ragazzi e una bimba, adottata nel 2015: «Spesso mi chiedono se sia diverso crescere una figlia dopo tre maschi, ma io non ragiono in questo modo. Anzi rimango sorpresa quando le persone le parlano o la trattano in modo diverso dai fratelli. Anche io non mi fermo mai a pensare al mio essere donna, a meno che non me lo chiedano. Questo abito ha una silhouette maschile ma è incredibilmente femminile (intende il completo nelle foto di apertura, ndr). Forse è per questo che apprezzo lo stile del signor Armani, un mix equilibrato e meraviglioso. Non uso la mia femminilità come un’arma, ma nemmeno ne sono vittima».

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Con il marito Andrew Upton, sceneggiatore e regista australiano che ha sposato nel 1997. Hanno quattro figli.

Ormai da molti anni è legata allo stilista Giorgio Armani, prima come volto del profumo e poi come ambasciatrice dell’universo cosmetico: «È una relazione cresciuta piano, in modo organico, non mi sembra nemmeno sia passato tutto questo tempo. Ho sempre ammirato il lavoro del signor Armani da una certa distanza e poi, quando mi ha contattata, mi sono sentita incredibilmente lusingata. Mi piace pensare che condividiamo un insieme di sensibilità e influenze culturali». In altre interviste ha ricordato quanto l’abbia colpita vederlo ai suoi piedi a sistemare l’orlo di un abito: «È un uomo riservato, credo che molto di lui si possa capire dalle sue creazioni e dai progetti che decide di sostenere, anche tramite l’Armani Silos. Abbiamo una relazione molto “tattile”, perché il mio italiano è misero e il mio francese scolastico. Quando penso a lui, mi viene in mente l’intensità del suo sguardo».

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Stefano Guindani/courtesy Armani
Agli ultimi British Fashion Awards, assieme a Julia Roberts e Giorgio Armani. Cate ha consegnato allo stilista il premio alla carriera “Outstanding Achievement Award”.

È appena stata una madre piuttosto imperfetta nel film Che fine ha fatto Bernadette?, non particolarmente amato dalla critica, ma con un ritmo comico che le è valso la decima nomination ai Golden Globe 2020. Un film in linea con le sue scelte spesso fuori dagli schemi. Come quando ha deciso, dopo il primo Oscar per The Aviator (era Katharine Hepburn accanto a Leonardo DiCaprio), di tornare in Australia a dirigere la Sydney Theatre Company con il marito. Aveva 40 anni, Hollywood l’avrebbe riaccolta? A braccia aperte. Nel 2014 ha di nuovo vinto l’ambita statuetta, questa volta da protagonista, per Blue Jasmine di Woody Allen. Ha doppiato la boa dei 50 anni, qual è l’età migliore della vita finora? «Bisogna rispondere sempre “adesso”. Per non rimuginare sul passato e perché se pensi “andrà meglio” è come se non accettassi dove ti trovi ora, mentre io apprezzo sempre il momento in cui sono». Tra le decisioni dell’ultimo periodo che l’hanno resa più gioiosa cita un viaggio a Napoli in famiglia. «Avevamo questo weekend lungo e abbiamo deciso di partire, d’impulso. È stato fantastico. Alla fine sei felice ogni volta che ti prendi del tempo fuori dalla normalità, da ciò che fai ogni giorno».

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Cate Blanchett nel 2014 ritira l’Oscar come migliore attrice protagonista in Blue Jasmine di Woody Allen. Abito Armani Privé

Ha due progetti rischiosi nel cassetto, due mini serie che la vedono anche produttrice. Una si intitola Stateless (apolide) ed è ambientata in un centro di detenzione australiano per immigrati dove si intrecciano le vite di alcuni sconosciuti. L’idea nasce dall’impegno di Blanchett come ambasciatrice dell’agenzia Onu per i rifugiati: «È il modo con cui cerco di usare questi cinque minuti che mi sono concessi dal pulpito», racconta, «non posso dire alle persone quel che devono fare e nemmeno mi interessa avere questo atteggiamento. Non vedo il mio ruolo come politico. Da attrice la mia funzione è raccontare storie, far iniziare una conversazione attorno al tema». Ha persino portato suo figlio in una missione in Giordania: «Iggy è venuto con me nel campo profughi di Azraq. Sono temi di cui normalmente parliamo in famiglia, attorno al tavolo, perché non cerchiamo di proteggere i ragazzi da ciò che accade nel mondo. Sapevo avrebbe incontrato altri ragazzi della sua età, hanno giocato a calcio. Anche se non parlavano la stessa lingua e c’era un abisso tra le loro vite, non si percepivano differenze spirituali o emotive tra di loro. È un’esperienza di cui Iggy ancora parla».

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Cate Blanchett è ambasciatrice per l’agenzia Onu dei rifugiati e da sempre è impegnata per raccontare le storie di chi è costretto a lasciare il proprio Paese. In particolare, qui è a una conferenza sul tema degli apolidi (persone senza cittadinanza).

La seconda sfida è la mini serie Mrs. America. La serie racconta il percorso, negli anni 70, per ratificare il cosiddetto Equal Rights Amendment, la legge per la parità dei diritti legali uomo-donna. Un atto tenacemente sostenuto dalle femministe e altrettanto combattuto dalle conservatrici, tra cui la repubblicana Phyllis Schlafly, interpretata proprio da Blanchett: «Sono sempre interessata a persone con esperienze e idee diverse dalle mie: le nostre visioni del mondo sono opposte. Non capivo lei e nemmeno comprendevo perché tante donne avessero votato per Trump quando è chiaramente un misogino. Voglio sempre calarmi nella pelle degli altri per capire empaticamente il loro pensiero. Il mondo di oggi è polarizzato: se rimani intrappolato nelle notizie che ti selezionano gli algoritmi, rischi di finire in una bolla solipsistica dove ricevi solo conferme di ciò in cui già credi». Chi usa l’aggettivo solipsistico in una conversazione? Cate Blanchett, a quanto pare.

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Greg Williams/Armani Beauty
Dal 2013 Cate Blanchett è legata a Giorgio Armani, prima come testimonial del profumo Sì e oggi come Global Ambassador per Armani Beauty.

Quali differenze vede tra il femminismo degli anni 70 e quello di oggi? «Le donne allora si presentavano divise e le loro rivendicazioni non erano considerate un vantaggio per l’intera società. Le femministe, per le conservatrici, appartenevano a una specie aliena. Oggi siamo più interessate a collaborare, più orientate a trovare soluzioni. Ma ho capito anche che questo non sarebbe stato possibile senza ciò che è successo negli anni 70: le proteste e le paure dovevano venire in superficie. E quelle proteste erano comunque figlie degli anni delle suffragette. Il concetto di unione femminile che sta nascendo oggi è una grande opportunità anche per gli uomini». Speriamo allora che i nuovi anni 20 siano il decennio delle donne: «Stavo giusto parlando con i miei figli l’altro giorno e gli dicevo: “Non abbiamo mai sperimentato il matriarcato”. Tranne in alcuni piccoli luoghi isolati. Il mondo è chiaramente in crisi, la specie umana è disconnessa dall’ambiente, la democrazia è messa a dura prova. E che cosa succederebbe, mi chiedevo, se iniziassimo a guardare la realtà attraverso lenti femminili? Se gli uomini iniziassero veramente a condividere il potere? Potremmo ridisegnare un mondo che rispetta tutti. Questa è la mia utopia, ma non accadrà, se non ci diamo da fare».