L’ultima volta che ho visto Ernesto, due anni fa, eravamo sulla sua Fiat 124 d’epoca color cappuccino. Pioveva a dirotto e uscivamo da cena a casa di un’amica. L’auto aveva un odore di buono, di vecchio ma buono. Quattordici anni prima l’auto era un’altra e il mattino dopo lui sarebbe partito per imbarcarsi su una nave da crociera. Sarebbe stato via anni a lavorare e provare accenti diversi, uno dopo l’altro, una crociera tra i fiordi, una nel Mediterraneo, una nelle rotte che ho perso. Oggi Ernesto D’Argenio mi chiama in un lungo pomeriggio di lockdown, alla fine di una videoconferenza di lavoro su cosa consumano le persone in quarantena: consumiamo chiamate e ricordi, chiaro. La casa è la scatola del tempo che viviamo tutti: la chiamata di Ernesto in un giorno di aprile è la scatola del tempo sull’asse Milano-Roma. Con il primo ciao e quel suo accento storto e dritto dedicato alla carriera di attore, Ernesto mi porta a surfare in una dozzina d’anni in 34 minuti di chiamata. “Sarà la botta definitiva al cinema italiano come lo conosciamo ora, oppure no: ti devo raccontare così tante cose su Roma, il cinema, chi lavora nel cinema” scandisce con un accento che non è né il valdostano mostrato in Rocco Schiavone (a fianco di Marco Giallini) né il catanese testato in Squadra Antimafia. Prima di partire per lavorare su una nave da crociera io ed Ernesto avevamo 20 anni circa: ci eravamo conosciuti come commessi, tornato da quella lunga crociera durata anni voleva diventare attore, quasi di punto in bianco. Ci è riuscito, con una testa obliqua, liquida, ostinata.“Me lo ricordo quando hai deciso che avresti fatto l’attore: eri qui a casa mia, in cucina, alla festa di Natale, hai finto tutta sera di essere attore con chiunque…Prima ho visto la tua diretta su IG”, “Sì, ho visto che eri entrata a seguirla e ti ho chiamato subito dopo, come stai Manu?”.

Non c’è un motivo per cui ci stiamo sentendo: il pensiero liquido di Ernesto è il tempo liquido di queste ore di lockdown. Non c’è un motivo per chiamare le persone, non è neanche più la solitudine. Ernesto D’Argenio non ha un film o una serie tv di imminente uscita, motivo per cui i PR degli attori ti invitano a scambiare lunghe telefonate. Ernesto schermo o non schermo ha un viso sottile, educato e quando apre le braccia si allunga per chilometri. Anche le sue conversazioni sono così. È l’unico che in questi 30 giorni di chiusi in casa mi abbia fatto vivere i miei ultimi 16 anni in un crawl telefonico per cui servono braccia lunghissime. Alla fine, però, non ero in apnea, ci siamo lasciati con un’idea che è continuata come una fiammella di spunte verdi via WhatsApp.

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Barbara Oizmud

La chiamata di Ernesto D’Argenio è una chiamata alle armi ideative: mi ha detto di svegliarmi, di ricordare bene quando avevo 21, 22, 23 anni. “C’è l’urgenza di raccontare una generazione che abbiamo perso in tre mesi: ci siamo dimenticati di ricordare, abbiamo perso gli anziani, i vecchi, “i” prima di noi” continua mentre dall’altro capo del telefono Roma è silenziosa mentre Milano, nella mia via, solita al trottare di tre linee di tram, passa l’ennesima ambulanza. I grandi vecchi da raccontare sono già in questa conversazione: “in primavera sarò in “Una piccola grande donna - Rita Levi Montalcini, regia di Albero Negrin, è un biopic a ritroso sul premio Nobel che si concentra sull'importante scoperta in ambito medico-scientifico di cui il mio personaggio, Lamberti un giovane ricercatore (in realtà Lambiase), ha partecipato e contribuito grandemente”. Da zero a cento anni in pochi secondi. “Sai che sono diventato un motociclista? Ho un progetto…vediamo come andrà dopo tutto questo. Ma tu? Ho visto che ti sei sposata. Raccontami come”. Il “come” per Ernesto sembra un momento calmo che vuole davvero ascoltare: rallentiamo mentre le mail si sommano, mentre mi sgrida perché non ho visto tutte le puntate di Volevo fare la rockstar. “Sì quella scena è bella, ma quella dopo quando io dico … l’hai vista?”. No, non l’ho vista ma se in un mondo di streaming possiamo rivedere tutto, rivedere i miei 20 anni non è così facile e voglio godermela: Ernesto lo sta rendendo facilissimo. Ci sono chat sopite e riapparse per noia, ci sono meme scambiati con gli amici di sempre, che ti conoscono dai tuoi 12 anni, ci sono gli ex amori che trovi in formato fotografia mentre sistemi la casa come mai prima perché, mai, prima avevi avuto così tanto tempo. Ma niente mi ha portato ai miei 20 anni come Ernesto. Ernesto D’Argenio è un chirurgo che sa farsi spazio tra momenti in cui “ti ricordi quando mi hai chiesto il contatto del mio amico che faceva il croupier sulle navi da crociera perché volevi scrivere solo di quello?”.

“Non è strano che sei quella che mi ha visto ultima prima della mia nuova vita, prima di imbarcarmi, e sei quella che ho sentito in questo lockdown di nuova vita imposta?” continua Ernesto mentre parliamo di quanto la quarantena riprenda il tuo tempo, lo porti a spasso altrove tenendoti inchiodata a casa. Se potessimo fotografare il momento in cui siamo ora e sviluppare il rullino appena usciti di qua, come saremmo? Ci chiediamo mentre i luoghi, gli odori e anche i gesti di 16 anni prima si fanno belli tondi: “forse saremmo come in una fotografia di Luigi Ghirri, sai quelle in cui l’estate è finita e si torna a casa. Sospesi”. Ernesto è svelto, lesto e furbo: appena pronuncio questa frase sento che probabilmente sta inarcando il sopracciglio e immaginandosi in quella spiaggia adriatica d’autunno. “Su questo dovremmo farci qualcosa…, insieme” pensiamo all’unisono.

Il mattino dopo questa conversazione Ernesto mi scrive “Lo sai che Ghirri era molto sbadato? Stralunato, distratto, spesso assente. Sono sicuro che poteva partire con un'auto cappuccino e rimontare su una confetto. Mi sto documentando …”.